Mea culpa di Nicolas Sarkozy a Kigali, per il genocidio in Rwanda del 1994. Incontrato il presidente Paul Kagame, il Capo di Stato francese ha bollato il sostegno al precedente governo come “grave errore di valutazione” e per la prima volta ammesso la responsabilità di Francia e comunità internazionale. “Tutti i responsabili del massacro – ha esortato – vengano catturati e puniti”.
“Quanto è accaduto in questo paese – ha poi aggiunto – obbliga la comunità internazionale, e anche la Francia, a riflettere sugli errori che sono stati commessi”.
Accompagnato da Kagame, Sarkozy ha poi visitato un memoriale dedicato alle vittime del genocidio. I due hanno inoltre annunciato l’avvio di una cooperazione economica e culturale. Tra le iniziative di Kigali, la riapertura delle scuole francesi nel paese.
“Rwanda e Francia hanno vissuto un passato difficile – ha detto il presidente rwandese Kagame -. Se oggi siamo qui è però proprio per andare incontro al futuro con nuovi rapporti e nuove relazioni”.
Nel 2006 la rottura delle relazioni diplomatiche. All’origine, il coinvolgimento nell’attentato all’aereo dell’ex presidente rwandese, di cui una corte francese aveva accusato Kagame. Episodio scatenante degli scontri etnici fra Hutu e Tutsi, in cui hanno poi perso la vita circa 800.000 persone.
Pierantonio è il penultimo di sette fratelli, nasce a Mestre il 7 maggio 1939, studia a Vicenza e a Verona e a quindici anni raggiunge il padre emigrato nello Zaire. A Bukavu, nel 1960, fa la prima esperienza di guerra africana e, con alcuni suoi fratelli, si prodiga per traghettare sull’altra sponda del lago Kivu gruppi di profughi congolesi. Quando scoppia la rivoluzione mulelista, Pierantonio decide di trasferirsi nel vicino Rwanda, il paese dalle mille colline, che ha da poco ottenuto l’indipendenza. Il 5 maggio 1965 ottiene il primo permesso permanente di residenza in Rwanda e da allora fino al 1994 risiede a Kigali. Qui ha sposato Mariann, una cittadina svizzera, e ha avuto tre figli: Olivier, che vive ancora in Rwanda, Caroline, che vive in Germania, e Matteo che vive con la madre a Bruxelles. Oggi Costa fa la spola tra il Rwanda e Bruxelles.
Imprenditore di successo, allo scoppio del genocidio ha in attività quattro imprese. Per quindici anni, dal 1988 al 2003, l’Italia gli affida la rappresentanza diplomatica.
Nei tre mesi del genocidio, dal 6 aprile al 21 luglio 1994, Costa porta in salvo dapprima gli italiani e gli occidentali, poi si stabilisce in Burundi, a casa del fratello, e da lì comincia una serie incessante di viaggi attraverso il Rwanda per mettere in salvo il maggior numero di persone possibile. Costa usa i privilegi di cui gode, la rappresentanza diplomatica, la sua rete di conoscenze e il suo denaro per ottenere visti di uscita dal paese per tutti coloro che gli chiedono aiuto.
“Decisi che avrei operato così. Mi sarei vestito sempre allo stesso modo per essere riconoscibile: pantaloni scuri, camicia azzurra, giacca grigia. Distribuite nelle tasche – e sempre nello stesso posto – avrei messo banconote da 5000 franchi rwandesi (circa 20 euro), da 1000, da 500 e, infine, da 100 franchi, per essere sempre pronto a estrarre la cifra giusta, senza dover contare i soldi: la mancia dev’essere data nella misura giusta, se dai troppo ti ammazzano per derubarti, se dai troppo poco non passi. Nella borsa avrei avuto costantemente con me alcuni fogli con la carta intestata del consolato d’Italia, e sul fuoristrada ci sarebbero state le immancabili bandiere italiane. Quanto alla durata delle incursioni oltre confine, avrei evitato il più possibile di dormire in Rwanda e di viaggiare col buio”. (cfr. La lista del console, pag. 113).
Aiutato dal figlio Olivier, Costa agisce di concerto con rappresentanti della Croce Rossa e di svariate Ong, e alla fine del genocidio avrà perso beni per oltre 3 milioni di dollari e salvato quasi 2000 persone, tra cui 375 bambini di un orfanotrofio della Croce Rossa.
Verrà insignito della medaglia d’oro al valore civile per gli italiani portati in salvo e analoga onorificenza riceverà dal Belgio. Nei cento giorni del genocidio rwandese, Costa, che non è un missionario votato al sacrificio, ma un noto imprenditore con famiglia che si fa guidare dalla sua coscienza, decide di rischiare la sua vita, compiendo azioni straordinarie mettendo semplicemente a disposizione del prossimo la sua umanità e i suoi beni. “In mezzo a tanta violenza e sofferenza, qualcosa avevo fatto. Solo questo. Questo e niente di più”, ma col costante rammarico che si poteva fare di più.
Il giornalista che ne ha raccolto la testimonianza, Luciano Scalettari, commenta così: Secondo me, è un giusto, nel senso che danno a questo termine gli ebrei”.Risponde Costa: ”Ho solo risposto alla mia coscienza. Quello che va fatto lo si deve fare”.
Fonte: P. Costa–L. Scalettari, La lista del console, “nordsud”, ed. Paoline, Milano, 2004
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
MUKANTESI Francine 14 anni, superstite, Nyamata
Y.M. – Il giorno in cui il presidente è morto, dove siete fuggiti, tu e la tua famiglia?
F.M. – Nella chiesa di Ntarama e alle paludi.
Y.M. – Spiegami. Quali paludi?
Francine tace all’improvviso. Non c’è più modo di farle dire una parola. Le racconto la mia storia di superstite. Quando le dico che avevano addirittura annunciato alla radio che ero morta, Francine ride e mi abbraccia. Ha ritrovato la fiducia e mi racconta la sua fuga e come i suoi genitori sono stati uccisi.
Y.M. – E che cosa hai fatto dopo il genocidio?
F.M. – Sono stata affidata ad una donna superstite, mutilata del braccio destro e a suo marito. Mi occupo dei loro bambini.
Y.M. – Vai a scuola?
F.M. – Non sono più stata a scuola dal genocidio. Mi sono fermata alla seconda elementare.
Y.M. – Hai voglia di tornare?
F.M. – Si, certo.
Y.M. – Sei pronta a studiare con bambini di nove anni?
F.M. – Ne sarei felice.
Y.M. – E per il momento, non sei felice?
Lungo silenzio.
Y.M. – Ti farò tornare a scuola in settembre.
Francine sorride dolcemente.
Emeline 20 anni, superstite, Kigali
E. – Non ero con i miei genitori quando il presidente è morto, ero dalla mia madrina. Era abbastanza lontano da casa mia, non sono potuta tornare e ho cercato di fuggire con la sua famiglia. Il consigliere comunale ci aveva promesso la sua protezione, era un grande amico della mia madrina. All’inizio, non mi voleva ma poi ha accettato. Ad un certo punto, non potevamo più restare rinchiusi, dovevamo muoverci perché gli omicidi aumentavano. Abbiamo dovuto separarci per proteggerci meglio. Alla fine, tutta la famiglia è stata uccisa, io sono l’unica sopravvissuta.
Tutto questo fa parte del passato, la vita continua ma faccio fatica ad affrontarla perché provo un dolore molto profondo.
Y.M. – Spiegami.
E. – Non riesco ad occuparmi degli orfani dei miei fratelli e delle mie sorelle. Sono tutti ospitati in famiglie hutu che erano nostri vicini. I bambini non vogliono restarci, sono infelici, pensano che si tratta delle stesse persone che hanno ucciso i nostri cari.
Y.M. – Cosa pensi fare oggi?
E. – Non lo so, ho solo 20 anni, ho appena terminato i miei studi di lettere classiche. Se lavorassi ora, non avrei mai uno stipendio abbastanza alto per occuparmi bene di loro. Ma ho anche dei dubbi se continuare i miei studi perché so che i piccoli non stanno bene là dove sono.
Y.M. – Che cosa desideri prima di tutto?
E. – Una casa per farci vivere i bambini.
NDAHIMANA Matthieu 35 anni, assistente medico, in prigione a Butare
Durante tutto il colloquio, Matthieu sembra rivedere il film dell’orrore che ha compiuto. La sua elocuzione è a scatti, puntuata da lunghi silenzi durante i quali il suo sguardo erra al suolo. Poi, come se tornasse in sé, mi guarda di nuovo come per trovare in me la forza di parlare.
M.N. – Vorrei dirvi, signora, che ho tradito la mia professione e la mia coscienza … Ho ucciso quando avevo come missione di salvare la vita … Ho cercato di incontrare le persone alle quali avevo fatto del male … Il mio rammarico è ancora più forte perché, dopo il genocidio, sono stato accolto dalle famiglie di coloro che avevo ucciso… Mi dicevano che non capivano come avevo potuto partecipare al genocidio e che ero sempre stato un uomo esemplare. È vero. Neppure io capisco cosa mi è successo … Quello che so, è che mi hanno insegnato a sparare con un fucile, e che ho sparato. Due volte. Proprio in mezzo ad una folla di donne e di bambini … Ringrazio Dio di essere ancora vivo per poter chiedere perdono … Ma io sono un uomo morto …
Y.M. – E io, Matthieu, vi dico che siete ancora vivo perché ora sapete dove si trova il male, chiedete perdono e cercate di lavorare per la pace tra i Ruandesi. Sareste disposto a girare il mondo con me per testimoniare, voi come artefice del genocidio, io come vittima, per riportare la pace nell’umanità?
M.N. – Si. Certo. Sono pronto.
Matthieu piange a lungo, la testa tra le mani. Ed io pure.
Le risaie erano abbandonate, il raccolto stava marcendo senza che nessuno se ne curasse. Campi e case erano vuoti. Qua e là si scorgevano i segni della furia appena passata: qualche casa bruciata; qualche altra svuotata di tutto, compresi tetto, porte e finestre; ogni tanto, sul ciglio della strada, una jeep o un camion militare abbandonati.
Viaggiavo piano, per osservare meglio. Dai dolci declivi delle colline lo sguardo spazia lontano. Sono paesaggi che ho visto decine di volte. Ma al posto del consueto andirivieni brulicante di gente, c’era solo desolazione e vuoto. Dov’erano i ruandesi? Il genocidio, la guerra, poi la fuga in massa avevano lasciato questa terra tristemente inanimata.
Stavo entrando a Kigali. Lungo tutta la strada, dalla frontiera alla capitale avevo incontrato sette persone.
Un milione di ruandesi era stato ucciso durante il genocidio, altri due milioni, forse più, erano profughi appena oltre il confine, in Zaire, a vivere l’ultimo capitolo di quella tragedia. Quasi la metà della popolazione non c’era più. In soli cento giorni questo piccolo Paese era stato cancellato. I nuovi arrivati, il Fronte patriottico ruandese guidato da Paul Kagame, dovevano ricostruirlo dalle ceneri. Avevano vinto la guerra, avevano sbaragliato gli avversari. Ma il governo e l’esercito del genocidio si erano ritirati facendosi scudo della gente. L’avevano portata con sé, lasciandosi alle spalle solo morti e rovine.
Non mettevo piede a Kigali dal 3 maggio. Era il 21 luglio 1994. Nei trent’anni passati in Ruanda non ero mai stato assente tanto a lungo. Ma non sapevo se tornavo per restare o per l’ultima volta, per poi andarmene per sempre.
Il fuoristrada mi portava lento tra le vie più familiari. Passai davanti al mio negozio. Le saracinesche erano incredibilmente intatte: i fax, le fotocopiatrici, i computer erano ancora in vetrina. L’officina di ricarica delle gomme no, i cancelli erano spalancati. Non entrai nemmeno. Sapevo già cosa avrei trovato: i trenta container – come vidi il giorno dopo – erano stati scassinati e svuotati della merce, come pure il magazzino di pneumatici. Con mio grande rammarico, il giorno successivo avrei avuto un’altra amara sorpresa: proprio quella notte, tra il 21 e il 22 luglio, mi avrebbero saccheggiato il negozio. L’avrei trovato devastato e vuoto. La guerra era finita ma alcuni ladri e sciacalli, evidentemente, erano ancora in circolazione.
Anche le strade della capitale erano tremendamente vuote. Non si vedevano più i segni della morte che aveva abitato questi quartieri. Tutto ripulito. Ma i fatti erano tanto recenti che la memoria collocava ancora, con precisione, i luoghi delle barriere dove i miliziani fermavano, perquisivano, interrogavano, uccidevano. Mi guardai intorno cercando di immaginare dove potevano essere le innumerevoli fosse comuni.
Le cinque del pomeriggio. È l’ora in cui in Africa la luce del sole si fa un po’ più morbida, e i colori cominciano a diventare più dorati. Ricordavo che, prima della guerra, era il momento più bello della giornata, a Kigali, quando le strade col fresco della sera si animavano ancora di più. Casa mia. Quando l’avevo lasciata non pensavo che l’avrei rivista. Un colpo di clacson, per vedere se c’era qualcuno. Li vidi spuntare al cancello, uno a uno, arrivarono tutti. Tutti e quindici. «Patron, come va? Come stai?». Erano emozionati, commossi. Io pure, ma non mi è mai piaciuto farlo troppo vedere. Si erano salvati tutti. Mi fecero mille domande, tutti insieme. E mi raccontarono i loro cento giorni. Sembrava il diario di Anna Frank, ma a lieto fine. Quattordici tutsi e un hutu. Si erano protetti a vicenda. Finché impazzavano le bande degli interahamwe, l’hutu andava ad aprire la porta, mentre gli altri stavano nascosti in soffitta. Liberata la città dall’Fpr, era l’hutu, il mio custode, ad avere paura. Durante i primi giorni, lui stava nascosto e gli altri lo proteggevano.
In quel mare di violenza e di bestialità c’era stato anche qualcuno capace di fare qualcosa di buono, di comportarsi da uomo anziché da animale. Non si erano mai traditi. Non era affatto scontato. I miei ospiti mi raccontarono che nella casa a fianco alla mia erano state uccise quattro persone perché il guardiano aveva fatto la spia. Erano nascosti in casa e li aveva fatti ammazzare. Mi dissero che li avevano sepolti poco più in basso, sul ciglio della strada. E ci sono ancora. In seguito, fu piantata una croce sulla loro tomba.
«Come avete fatto col cibo?». «Eh, Monsieur, prima abbiamo dato fondo alle scorte, poi barattavamo le bottiglie della tua cantina con roba da mangiare. Infine, sono venuti a saccheggiare. Allora è stata dura, perché non c’era più nulla da scambiare. Ma il vero problema era l’acqua. A Kigali non ce n’era più. Così ci siamo messi a bere quella della piscina. Era verde ormai, ma disinfettandola col cloro abbiamo tirato avanti. Insomma, ce l’abbiamo fatta».
Dovevo ancora entrare in casa. «Non c’è più nulla, vero?», chiesi. «No, nulla, tranne il pianoforte e qualche mobile troppo pesante da portar via», mi risposero. «Sono venuti tre volte a saccheggiare. Ma, per tua fortuna, l’ultima volta uno dei rapinatori ti conosceva, anche se non sapeva che questa era la tua casa. Quando ha letto il nome “Costa”, inciso su un mobile, ha detto che ti avrebbe custodito tutto, ma era meglio che la roba restasse da lui per evitare altre ruberie».
In effetti, in seguito mi riconsegnò oltre la metà dell’arredamento e delle nostre cose.
Varcai la soglia. Restavano i muri. Sulle pareti si intravedevano i segni del mobilio e dei quadri scomparsi. Erano spariti anche letti e materassi. Lo prevedevo, per cui mi ero portato un lettino da campo per dormire.
La casa era vuota come me, come quella città, come trent’anni della mia vita e della nostra piccola storia in Ruanda.
Su Kigali scendeva la sera. Uscii in giardino, mi sedetti su un gradino e d’istinto aprii la mia inseparabile borsa di pelle marrone. In un fascicoletto portavo con me le poche carte che avevo messo insieme durante quei cento giorni. Qualche relazione fatta all’ambasciata, fax mandati e ricevuti. Documenti. Ogni pagina una storia.
Ritrovai il fax della dottoressa Anna Ascoli Marchetti con il quale ci chiedeva di cercare Gemma Mukagashaiyja, la madre dei bambini che ospitava in Italia. E unito a quello, il nostro triste messaggio di risposta: avevamo saputo che Gemma era stata uccisa. Io mi trovavo fuori città, ed era toccato a Mariann, mia moglie, l’ingrato compito di comunicare la notizia: «Ti sono vicina con tutto il cuore», scriveva con delicatezza Mariann, «perché avrai il difficile compito di annunciare questa tragedia ai bambini».
Ritrovai le autorizzazioni rilasciateci da Sylvain Nsabimana, il giovane prefetto di Butare che ci aveva aiutato per far uscire diversi gruppi di persone in pericolo dal Ruanda. In seguito Sylvain fu messo sotto accusa al Tribunale internazionale di Arusha. Non so cosa gli imputino, ma posso testimoniare (come ho fatto con una lettera che gli ho mandato) che con me si è prodigato in tutti i modi per agevolare la salvezza di tante persone.
Ritrovai, soprattutto, le liste. Erano su carta intestata del consolato. Vi scrivevo nomi e dati delle persone che portavo fuori, con i convogli. Da Kigali, Musha, Rwamagana, Butare, Gitarama, Kabgayi.
Le scorsi. Non le avevo più guardate da quando avevo vissuto quegli avvenimenti.
23 aprile 1994. Contai i nomi: 42 persone. Frugavo nella memoria. No, erano di più, erano 51. Forse mancava una pagina. Italiani e ruandesi, laici e religiosi. Mi tornavano alla mente le immagini dei volti, quasi tutti. E del convoglio di auto che, lentamente, una barriera dopo l’altra, una trattativa dopo l’altra, arrancava verso la frontiera.
4 maggio, la spedizione dove caricai i figli del colonnello. Un gran colpo di fortuna, quello. In cambio del favore di portargli i figli in Burundi mi feci dare scorta e permessi. Uscirono 32 persone.
E poi le altre, il gruppo di Gitarama, i dipendenti dell’Astaldi, la famiglia Sunier con altri 17 ruandesi. Ritrovai un pezzo di carta con i dati di tre religiose: suor Marie, suor Esteffe, suor Anna. Ero rimasto impressionato dalla serenità di quelle missionarie. Una era piuttosto anziana, non era facile affrontare un’esperienza simile a settantaquattro anni. Eppure nulla le turbava. Non avevano mai mostrato il benché minimo segno di paura.
In quei consunti fogli di carta c’erano i nomi che avevo potuto scrivere. Mancavano quelli che non avevo incontrato, che non erano riusciti a raggiungere il posto convenuto di ritrovo, quelli che non avevo la possibilità di caricare a bordo, o che avevano scelto coraggiosamente di restare, per tante diverse ragioni.
La lista dei bambini non c’era, i 375 bambini della Croce Rossa. Probabilmente era rimasta in mano al mio compagno in quell’avventura, Alexis Briquet.
Sfogliavo quei pezzi di carta pensando che sembrava passato un secolo. Invece, tutto era avvenuto non più di due mesi addietro. Sfogliavo, e mi chiedevo se si poteva continuare a vivere in Ruanda dopo tutto ciò che avevo visto.
Ci abitavo da trent’anni, in quel Paese, più di metà della mia vita, allora. Ma i miei amici, la gran parte, non c’erano più. Tutto era cambiato, tutto era stravolto. Avevo veramente voglia di ricominciare?
Ripresi in mano una lettera del 31 maggio precedente, mandata a un mio dipendente perché mi vedevo costretto a interrompere il rapporto di lavoro. Gli avevo scritto cose molto lucide.
Caro Claude,
è con enorme tristezza che devo scriverti per porre fine al contratto di lavoro con Bandag. La decisione è definitiva perché ho perduto ogni speranza di vedere le cose ristabilirsi. Dopo la partenza da Nairobi ho fatto numerosi viaggi in Ruanda nella speranza di trovare una soluzione che permettesse di salvare qualcosa. Al contrario, sono stato testimone della dissoluzione di un Paese nella barbarie, nel tribalismo e nel vandalismo. Due giorni fa ho deciso di non ritornarci più, perché i rischi sono diventati veramente eccessivi.
Quale che sia la fine che potrà un giorno delinearsi, ho la convinzione che non sarà prossima e lascerà il Paese diviso e in guerra civile ancora per molti anni. Troppi morti, troppi assassini, la ragione ha abbandonato il Ruanda e il sangue chiama il sangue.
Credimi, caro Claude, sarei il primo a felicitarmi di essermi sbagliato e se ci sarà un minimo spiraglio, ti contatterò immediatamente.
Per il momento resto a Bujumbura per permettere a Matteo di terminare l’anno scolastico, poi rientreremo in Europa dove spero di incontrarti.
Auguri a te e alla tua famiglia.
In quel momento la guerra e la carneficina erano in corso. Il 21 luglio invece era finita. Ma mi domandavo se il Ruanda poteva riprendersi da un evento tanto drammatico e lacerante. Era un intero popolo privato dell’innocenza. Non c’era una famiglia che non avesse provato la violenza più bruta, inflitta o subita.
“E io”, mi chiedevo, “ho la forza di ricominciare?”. Perché di questo si trattava. Ricominciare da zero.
Oggi sono passati dieci anni, da quegli avvenimenti. E sono ancora in Ruanda. Alla fine, una risposta me la diedi. Ricominciai. Mi dissi che, in fondo, avrei dovuto comunque ricominciare. In Ruanda, in Italia, o in Belgio. In ogni caso dovevo tirarmi su le maniche in una realtà nuova e ripartire da capo. Ma il problema non riguardava gli aspetti economici o imprenditoriali. Si trattava di tirarsi su le maniche per ricostruire un sistema di pensieri, principi, idee, valori che erano stati terremotati da un’esperienza devastante. Volevo affrontare o rimuovere i ricordi di quei cento giorni? Volevo affrontare o rimuovere le domande inquietanti che quei fatti avevano provocato?
Alla fine, forse, non ho fatto né l’una né l’altra cosa. Ho lavorato, forse dedicando un po’ più d’attenzione agli avvenimenti sociali e politici che avvengono intorno a me. Ho rimesso in piedi le mie aziende. Ho ricominciato a tessere, in Ruanda, una nuova rete di relazioni e di amicizie. Insomma, ho semplicemente vissuto.
Ma in questi dieci anni sono tornato in alcuni di quei luoghi dell’orrore. Sono andato alla cattedrale di Nyamata, nella quale sono state uccise – pare – più di mille persone. La chiesa non è più stata usata come luogo di culto. I cadaveri sono stati sepolti, ma la chiesa è rimasta come allora. Si vede ancora il lenzuolo bianco dell’altare striato di sangue. Ci sono le chiazze sui muri e i piccoli fori sul tetto, provocati dalle schegge delle bombe a mano.
Sono andato alla scuola di Murambi, a 15 km da Butare, che è stata consacrata a monumento alla memoria. Sono entrato in tutte le aule, una a una. In quel caso i corpi li hanno lasciati esattamente com’erano, cosparsi di calce. È un groviglio di esseri umani che ricopre i pavimenti di tutte le classi della scuola.
Sono andato ogni anno a rivedere uno di quei luoghi. E ce ne sono tanti in Ruanda. Come console ho partecipato alle cerimonie di commemorazione. Ho continuato a provare incredulità, rabbia, dolore. Ogni volta mi sono ritornate alla mente immagini che forse volevo rimuovere.
Facce paralizzate dalla paura, tanto che non riuscivano più a parlare. Cani che si cibavano dei corpi delle vittime. Scene di violenza a cui ero stato costretto ad assistere impotente. Volti di amici che non ho saputo salvare.
Oggi che sono passati dieci anni, mi rendo conto che quei cento giorni sono ancora un incubo a occhi aperti, che mi ha spesso tormentato e che talvolta mi ha tolto il sonno.
Ho visto massacrare i figli di una famiglia di nostri amici, i Sebulicoco. La loro casa era sulla collina di fronte alla nostra. Ho ricevuto, due ore dopo, la telefonata allarmata della madre che mi chiedeva se tutto andava bene, e non me la sono sentita di dirle la verità. Ho saputo troppo tardi che lei e il marito, il 6 aprile, erano rimasti bloccati fuori città, in un paesino a pochi chilometri da dove avevo condotto una delle spedizioni di salvataggio. Dovevo andarci in quel villaggio. Ero stanco, era sera, non ce la facevo più. Ci mandai qualcun altro. Così non li incontrai, quei due miei amici. Non li incontrai per una stupida serie di coincidenze. E loro, due giorni dopo, erano morti. Massacrati come i figli.
Mi accadevano intorno queste cose, e io intanto dovevo andare a trattare con alcuni dei responsabili di quelle nefandezze, per ottenere il permesso di portare fuori qualche decina di persone. Loro stavano pianificando l’eliminazione di migliaia di esseri umani. E io battagliavo per una lista di qualche decina di poveracci.
Non ho fatto finta di non sapere. E quando ho potuto, ho detto quel che ne pensavo. A uno di loro che mi chiedeva un intervento diplomatico ho semplicemente risposto che smettesse di far ammazzare la gente, e poi avrebbe potuto chiedermi qualcosa. In un’altra occasione, mi trovai a cena a Gitarama con un altro di questi personaggi. Ne discutemmo a lungo, ma inutilmente. Costui era un amico, un tempo. Avevo la confidenza di chiedergli il perché di tutto ciò che stava accadendo. Sembrava invasato, fuori dalla realtà, assetato di sangue, imbevuto di folli idee razziste.
In mezzo a tanta barbarie, ho incrociato anche l’altro volto dell’umanità: gente semplice, come alcuni dei miei dipendenti, che nonostante la propaganda e la follia collettiva continuava a nascondere gente in pericolo e a compiere gesti di solidarietà; missionari che mettevano la propria vita in gioco; volontari, medici, cooperanti che senza alcun interesse o ragione personale erano venuti apposta in Ruanda per fare qualcosa, per salvare qualcuno.
Ecco, forse oggi ho la risposta da dare a quanti, all’epoca, mi domandarono «chi te lo fa fare». Di fronte a quell’apocalisse, mi afferrai forse a quei pochi brandelli di bene, al dare una mano al missionario, al carico di viveri da portare a un orfanotrofio, a un amico che potevo aiutare. Non serviva discutere con quello che sparava, né si poteva convincerlo a diventare un benefattore. Ma certo si poteva fare qualcosa.
A volte, nei momenti difficili ho corso qualche pericolo, ma ho sempre ritenuto che erano rischi calcolati, in situazioni sotto controllo.
Spesso, questo sì, mi sono chiesto perché altri non hanno cercato di farlo, specie chi ne aveva le opportunità, specie chi ricopriva una carica che gli avrebbe permesso di agire efficacemente. Perché tanti non ci hanno nemmeno provato? Perché non hanno neppure utilizzato il potere, il denaro, l’influenza che avevano per alleviare almeno una piccola parte di quelle sofferenze?
Oggi, dopo dieci anni, posso forse dire che il mio cruccio non sono solo i brutti ricordi. La cicatrice che ti resta è il dubbio che potevi fare di più, potevi prendere qualche rischio in più. Forse potevo farlo.
Alcune persone straordinarie che ho conosciuto in quel periodo, loro sì, sono arrivati fino all’estremo delle loro possibilità. Io no. In questi anni mi sono convinto che avrei potuto fare di più. C’era tanta sofferenza attorno a me, forse potevo evitarne una piccola parte, viaggiando un po’ di più, pagando qualche soldo in più.
Ho detto a qualcuno che non avevo la possibilità di portarlo fuori dal Paese. Forse era proprio così, forse avrei fallito e sarebbe finita male. Ma, forse, avrei potuto cercare di farlo lo stesso.
Questo tarlo mi si è insinuato quel 21 luglio. Perciò ho voluto partire da lì. Sono ritornato a Kigali. Ho visto cosa restava del Ruanda. Ho avuto per la prima volta la piena percezione dell’enormità del massacro. Per la prima volta ho pensato che, no, non avevo lasciato nessuno per strada. Ma non ero andato io a cercarli, non avevo dedicato tutte le energie a immaginare ogni sistema possibile per salvarne qualcuno in più.
E oggi, dopo dieci anni, mi rendo conto che non ho mai raccontato a nessuno quei cento giorni. Forse nemmeno a Mariann, fino in fondo.
So che, per sbloccare il trauma, ai bambini ruandesi facevano innanzitutto raccontare ciò che avevano visto e vissuto. E raccontandolo riuscivano lentamente a superarlo.
Spero che sia servito anche a me.
Quindicesima settimana: 14 luglio 1994 –18 luglio 1994
14 luglio: Circa 6.000 persone all’ora entrano nella zona di sicurezza francese, inclusi membri della milizia estremista Interhamwe e ufficiali del governo ad interim.
Inizia un’epidemia di colera tra le popolazioni fuggite a Goma, nella regione zairese del Nord-Kivu.
16 luglio: Tredici ministri del governo ad interim si rifugiano nella zona di sicurezza francese.
17 luglio: Il FPR prende Gisenyi, ultima roccaforte ruandese dell’Hutu Power.
18 luglio: Le ultime truppe governative ancora in Ruanda vengono sconfitte dal FPR che dichiara la fine della guerra. Il Ruanda è ormai completamente liberato, ad eccezione della zona di sicurezza a sud-ovest controllata dai francesi.
Epilogo
19 luglio: Viene formato un nuovo governo di unità nazionale a Kigali che comprende membri del FPR e sopravvissuti dell’opposizione democratica. Faustin Twagiramungu, designato negli accordi di Arusha, viene nominato Primo ministro. Il nuovo governo annuncia la fine della schedatura etnica che viene eliminata sulle carte d’identità e in tutti gli archivi.
22 luglio: Il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton annuncia che truppe statunitensi saranno dispiegate per aiutare i rifugiati nei campi dello Zaire.
25 luglio: L’amministrazione Clinton dichiara pubblicamente che non riconosce più il governo ad interim del Ruanda.
16 agosto: Il generale Romeo Dallaire lascia il Ruanda. Il generale canadese Guy Touignant prende il comando dell’UNAMIR che conta 1.624 soldati.
21 agosto: Fine dell’operazione Turquoise durante la quale, i responsabili (prefetti, sottoprefetti, borgomastri e capi militari), che avevano organizzato localmente i massacri, non sono stati sottoposti ad alcun interrogatorio da parte dei militari francesi (sebbene l’ONU avesse dichiarato la qualifica di genocidio). Il capo delle FAR, il generale Augustin Bizimungu, viene visto a Goma in un veicolo dell’esercito francese. Ufficiali francesi dell’operazione Turquoise dissuadono gli ufficiali delle FAR che volevano raggiungere il governo di unità nazionale a Kigali.
Le Far che hanno raggiunto lo Zaire si riorganizzano e beneficiano dell’aiuto del Presidente zairese Mobutu.Presenza di circa 500 militari francesi nello Zaire fino alla fine di settembre.
Ottobre: La Commissione di Esperti nominata dall’ONU produce un rapporto che conclude che in Ruanda ha avuto luogo un genocidio contro i Tutsi.
Novembre: Il Consiglio di sicurezza dell’ONU adotta la risoluzione 955 che stabilisce una corte criminale internazionale ad Arusha in Tanzania, per i crimini commessi nel genocidio in Ruanda.
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
R. Pacifique 43 anni, superstite, Ntarama
“I nostri padri ci dicevano che nella chiesa di Dio, gli assassini non sarebbero mai entrati. Dal 1959, rifugiarsi nelle chiese è un abitudine dei Tutsi. Ci siamo semplicemente e naturalmente rifugiati in quella di Ntarama. Ma era piena. Gli assassini sono arrivati, hanno ordinato agli Hutu di uscire. Mia madre è andata avanti dicendo “sono Hutu”. È stata ammazzata sotto i nostri occhi. Mio padre e mia sorella incinta di nove mesi furono uccisi subito dopo, a colpi di mazza. Gli assassini hanno poi lanciato delle granate e alla fine sono entrati nella chiesa e ci hanno ucciso all’arma bianca. Sono riuscito a salvarmi con mia moglie e i miei figli. Siamo andati alla scuola di Cyugaro per raggiungere gli altri resistenti. “Sono indignato, dichiarò un certo Simon U. contemplando il numero di Tutsi ancora vivi nella scuola.” Poi, girandosi verso gli artefici del genocidio che lo circondavano, aggiunse: “Visto che siete degli incapaci, vado a cercare dei veri Interahamwe.” Dicendo questo, se ne è andato al volante del suo camioncino ed è tornato un’ora dopo accompagnato da molti Interahamwe che ci hanno attaccato con le granate. Alla sera, siamo riusciti a liberarci. C’erano molti morti. Siamo andati dal borgomastro … “Ovunque andiate, ci ha detto, incontrerete un Hutu. Deve uccidere, è il suo lavoro. Restate piuttosto tranquilli a casa vostra e lasciatevi massacrare con dignità.” Siamo tornati alla scuola, ma poco dopo quattro bus noleggiati dal comune hanno riversato i loro miliziani. Il combattimento è iniziato immediatamente. Granate da una parte, frecce e pietre dall’altra, machete e archi mischiati in una battaglia spaventosa. Vinti dal numero e dalle loro armi da fuoco, alla fine abbiamo dovuto ripiegare nelle paludi di papiro, dove abbiamo cominciato una vita un po’ vegetativa. Finché, all’improvviso, due settimane più tardi, una voce tuona: “Siamo il FPR. Fatevi vedere. Vi proteggeremo.” All’inizio non ci credevamo, perché temevamo che fosse un appello degli Interahamwe. Ma no, era davvero il FPR. Siamo stati condotti a Nyamata appena liberata. Là, ascoltavamo RTLM che diceva che il Bugesera era nelle mani dei FAR. Questa notizia ci ha fatto ridere perché si sapeva che il Bugesera era controllato dal FPR. Ma altri ci hanno detto che era un modo di far credere agli Interahamwe che non avevano perso la guerra e che dovevano continuare il genocidio. I medici del FPR ci hanno curato, ci hanno messo al regime d’acqua e le nostre gambe si sono progressivamente sgonfiate.”
NSANZURWIMO Patrice 79 anni, coltivatore, in prigione a Butare
Y.M. – Come avete cominciato ad uccidere?
P.N. – Ero seduto su una pietra della mia parcella. Sei gendarmi arrivano con i loro fucili. “Vieni con noi.” Li ho seguiti. Mi hanno portato davanti alcuni prigionieri e mi hanno dato un manganello coperto di chiodi.” Allora, vecchio, mi ha detto uno di loro, o ammazzi queste persone o ti freddiamo.” Allora ho cominciato a colpire i prigionieri.
Y.M. – Dove li colpivate?
P.N. – Sulla testa.
Y.M. – Quante volte?
P.N. – Due volte.
Y.M. – Nessuno si è difeso?
P.N. – No, per niente.
Y.M. – Quanto è durato tutto questo?
P.N. – Ho cominciato verso le otto e finito verso mezzogiorno.
Y.M. – Quattro ore! Ma quanti ne avete ammazzati?
P.N. – Devo averne ammazzati un po’ più di cento.
Y.M. – Allora, avete colpito duecento volte?
P.N. – Si.
Patrice risponde alle mie domande con vivacità e con un tono un po’ teatrale, ma quando gli domando se gli dispiace, è come colpito dallo stupore.
P.N. – Se ci fosse un nuovo genocidio, signora, scaverei un buco per nascondermi ed evitare di essere costretto ad ammazzare.
Y.M. – Sapete, trovo che noi, Ruandesi, meriteremmo di sparire per non contaminare gli altri popoli con il nostro crimine.
Innocent R. 32 anni, Twa, in prigione a Butare
Y.M. – Tu sai bene me che in tutta la storia del Ruanda, i Twa erano amici dei Tutsi. Allora, raccontami come mai li avete uccisi.
I.R. – Il cognato del brigadiere è venuto a dire che eravamo degli esseri insignificanti e che dovevamo inseguire i Tutsi scappati nella foresta, perché altrimenti saremmo stati tutti uccisi.
Y.M. – E tu hai partecipato a questa caccia?
I.R. – Sì. Ho ucciso tre Tutsi. Un certo Karasira, con un colpo di manganello. Un certo Vianney, che era un mio amico, con un colpo di lancia. E un bambino di 12 anni, con diversi colpi di pugnale.
Y.M. – Qual era il tuo stato d’animo mentre facevi queste cose?
I.R. – Era un po’ come un’epidemia. Prima di uccidere la prima volta, avevo paura. Ma dopo il primo assassinio, sono diventato molto cattivo e molto crudele. Era come se dentro di me fosse cresciuta una grande collera contro i Tutsi, senza che ne capissi il perché. Le nostre azioni non erano premeditate, agivamo sotto il dominio di una collera irrazionale fomentata in noi dalle autorità. Non ero più un essere umano.
Y.M. – E dopo, come ti sei sentito?
I.R. – Quando mi hanno arrestato, mi sono sentito sollevato e ho confessato direttamente. Era così bello tornare ad essere un essere umano. Oggi, mi rimetto alla giustizia degli uomini, accetterò la pena che mi sarà inflitta, anche se si tratta della morte. E per l’eternità mi affido alla giustizia di Dio.
«Costa, domani vado in Ruanda, per portare via i bambini della Croce Rossa. Devi venire con me». Era Daniel Philippin, il responsabile della Croce Rossa di Bujumbura. Non era passata più di una settimana dalla mia promessa di non varcare più il confine. Era sabato 4 giugno. Non risposi. Andai da Mariann, in cucina. Le dissi: «Domani vado a Butare, portiamo fuori i bambini della Croce Rossa. Non dirlo ai miei fratelli, se no me ne dicono di tutti i colori». Non obiettò. Mariann non si oppose mai ai miei viaggi.
Alle nove del mattino dopo eravamo già alla frontiera, con due macchine e un paio di camion. Briquet, intanto, stava trattando a Butare per ottenere i lasciapassare per i bambini.
Giunse la prima doccia fredda: da Bujumbura ci comunicarono via radio che la Croce Rossa di Ginevra non autorizzava l’operazione. Daniel non poteva proseguire, i mezzi di trasporto neppure. «Che significa?», urlò nella radio. «Cosa vuol dire che “non autorizzano l’operazione”? Si rendono conto che siamo già al confine? A Butare, Briquet ha predisposto tutto».
L’ordine era perentorio: uomini e mezzi della Croce Rossa non potevano proseguire. Decisi di andare da solo. Avrei raggiunto Briquet, e avremmo valutato il da farsi.
«Proviamo, Pierantonio», suggerì Alexis. «Oggi lo si può ancora fare, domani non si sa. Certo, è una pazzia, ma la guerra è quanto mai vicina e in quel centro ci sono 700 bambini che fra breve non avranno più da mangiare. Pochi giorni fa i militari hanno ucciso un’altra ragazza. Questi ragazzini sono in condizioni disperate».
Tuttavia, trasferirli tutti in un colpo solo era impossibile. Decidemmo, intanto, di portare via i più piccoli, fino all’età di nove anni. Scorremmo le loro schede, una a una: erano 375 bambini.
Potevamo contare sulla disponibilità del prefetto, Sylvain, ma c’era il solito scoglio dell’autorizzazione del comando militare. Interpellammo l’ufficiale di collegamento con la Croce Rossa e un graduato dei servizi segreti che conoscevamo. Entrambi ci diedero il via libera, ma senza nulla di scritto.
Corremmo in prefettura. Non c’era nessuno. Sylvain, sfortunatamente, era fuori. Tutto sembrava congiurare contro di noi. Ci demmo un tempo limite: «Se entro le tre del pomeriggio non abbiamo combinato nulla, rinunciamo».
Nell’attesa che tornasse il prefetto, ci mettemmo a caccia dei mezzi di trasporto. Non era uno scherzo trovare posto per quasi 400 persone, tra bambini e accompagnatori.
Il tempo passava, inesorabile. Erano le due del pomeriggio e tutto quel che avevamo trovato erano tre minibus da diciotto posti l’uno. «In qualche modo ce li faremo entrare», disse Alexis. Il problema era un altro: il prefetto non arrivava.
«Mi ha chiamato, sarà qui a minuti», annunciò finalmente l’ufficiale di collegamento. «Però, vi devo chiedere un favore», aggiunse. «Caricate anche la mia famiglia». Erano altre persone da stipare nei tre pulmini da diciotto posti.
Sylvain autorizzò immediatamente il trasferimento. Cominciammo a far salire i bambini. I pulmini erano stracarichi. Eravamo ormai pronti a partire. Anche la famiglia del colonnello era a bordo. Ma al momento di aprire i cancelli del centro, si pararono davanti quindici soldati con i fucili spianati. Il colonnello intimò loro di farsi da parte. Niente da fare. «Di qua non passate», ruggì il soldato più esagitato del gruppo. Erano quasi le tre, ogni minuto che passava peggiorava la situazione di sicurezza delle strade.
Il colonnello e i soldati cominciarono a discutere, animatamente. La tensione era alle stelle. I bambini, ammassati all’inverosimile, tacevano impauriti. I motori dei minibus erano in moto.
Il colonnello ruppe gli indugi. Col fucile a sua volta puntato sui soldati, aprì il cancello: «Io passo. Se devo sparare contro qualcuno, lo faccio. Provate a impedirmelo». I militari esitarono, lentamente cominciarono ad abbassare le armi, e si scostarono. I minibus uno dopo l’altro sfilarono dal cancello. Era fatta.
Scesi dall’auto e diedi una mancia a tutti. Volevo evitare che ci inseguissero. Nel primo veicolo c’erano il prefetto e il colonnello. In coda c’eravamo noi. Cominciò la via crucis delle barriere: ne contai diciassette, tutte sorvegliate da soldati. Ogni volta i controlli, la lista da esibire, le discussioni e le spiegazioni. E tante mance. Arrivammo alla frontiera alle sette di sera. I problemi non erano finiti: il solito puntiglioso funzionario dell’immigrazione volle controllare l’identità dei bambini una per una. Faceva di tutto per rallentare le operazioni, non voleva farli passare. Ma i permessi erano in regola, ed era presente il prefetto, non poteva dire di no.
Quattro ore dopo, l’ultimo bambino superava la fatidica sbarra.
Io e Alexis ringraziammo e salutammo tutti, compresi il prefetto e il colonnello, che ovviamente avevano concluso il loro viaggio. Il colonnello mi si avvicinò, mi posò una mano sulla spalla e disse: «Costa, penso sia meglio che tu resti a Bujumbura». Ci guardammo per un attimo. Il messaggio era chiarissimo, me l’aspettavo da tempo. Non l’ho mai più visto quell’ufficiale, credo sia morto. Non ho mai potuto chiedergli spiegazioni ulteriori. Ma sapevo che quella frase significava una cosa sola: “Non tornare più in Ruanda, perché al prossimo viaggio ti ammazzano”. Era un amico, mi aveva avvertito in tempo.
Alla dogana burundese c’erano in attesa, dalla mattina, gli uomini e i camion della Croce Rossa. Erano ormai le undici di sera. Vedendo che si faceva notte, avevano anche allertato il comandante di stanza a Kayanza, la prima cittadina oltre la frontiera. Gli avevano detto semplicemente che stavano arrivando 375 bambini e che bisognava trovare loro un posto per dormire e qualcosa da mangiare.
A mezzanotte i camion si fermarono nel cortile di un edificio. Sembrava una grande sala conferenze. Entrai, e mi commossi: c’erano 375 stuoie per terra, 375 coperte, 375 panini, 375 bottiglie di coca-cola. Come avesse fatto quell’ufficiale non l’ho mai saputo.
I bambini sfilavano nella grande stanza, prendevano posto e si distendevano sulle stuoie, sopraffatti dalla stanchezza. Li osservavo, uno ad uno, e trattenevo a fatica l’emozione. Pensavo agli altri, a quelli di Nyanza. Forse anche per loro i pericoli maggiori erano passati. Forse no, chi poteva dirlo?
Mentre quei piccoli mi trotterellavano davanti, nella mia mente si affacciavano le immagini di quei due mesi terribili: i viaggi, i volti, i gruppi che avevo condotto fuori dal “mattatoio-Ruanda”. La guerra continuava, la caccia all’uomo pure. Altri eventi drammatici, ben più grandi di me, si stavano compiendo, milioni di vite erano ancora in gioco.
Di sicuro, il Ruanda che avevo conosciuto per trent’anni, non esisteva più.
Ero terribilmente spossato. Dal 6 aprile al 6 giugno avevo perduto dieci chili. Mi rendevo conto che anch’io ero alla fine della mia corsa. Ma, almeno, quei 375 bambini erano in salvo, quell’operazione era finita bene.
In mezzo a tanta violenza e sofferenza, qualcosa avevo fatto. Solo questo. Niente di più.
Quattordicesima settimana: 7 luglio 1994 –13 luglio 1994
7 luglio: L’aeroporto di Kigali riapre.
13 luglio: Conquista di Ruhengeri, città principale del Nord del Ruanda, da parte del FPR.
Le FAR disfatte fuggono nello Zaire grazie ad un corridoio aperto dall’operazione Turquoise. Anche un milione di persone circa, (Hutu), fuggono nel vicino Zaire.
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
G. Augustin 36 anni, resistente di Bisesero (Kibuye)
A.G. – Le donne e i bambini raccoglievano i sassi e gli uomini combattevano con gli assassini. Abbiamo cercato di andare sulle colline. C’erano dei camion e dei bus pieni di miliziani e di persone, provenienti da varie zone, che si erano unite a loro. Bisesero è diventato un campo di battaglia. Ci siamo raggruppati sulla collina di Muyira. Gli assassini l’hanno circondata. Hanno cominciato il loro lavoro. I morti erano numerosi, Muyira era coperta di cadaveri di donne, di uomini e di bambini. Siamo stati attaccati tutti i giorni fino all’arrivo dei Francesi. Non eravamo più in molti ed eravamo indeboliti dalla fame, dalle ferite e dal dolore.
Y. M. – I Francesi vi hanno aiutato?
A.G. – I soldati francesi? Sono venuti a dare man forte agli autori del genocidio! È tutto. Ci hanno disarmato, hanno combattuto il FPR, ci sono stati persino dei morti tra loro. Ho visto il cadavere di un soldato francese. Per me, i Francesi sono venuti a sostenere il genocidio.
Y.M. – Non pensi di esagerare un po’?
A.G. – Per niente. I Francesi, nella loro logica di sostegno al governo genocida, ci vedevano come dei nemici. Hanno permesso agli artefici del genocidio di fuggire in Zaire. Per me, i Francesi sono degli assassini.
Y.M. – Per te è importate testimoniare?
A.G. – Il nostro dolore non impedisce al mondo di dormire. Ma ci resta solo la parola. Abbiamo perso tutto, tranne la nostra lingua. Allora, che altro possiamo fare se non testimoniare? Oggi, alla Francia non piace il governo ruandese, quello che ha fermato il genocidio. E per questo non ascolta la nostra testimonianza, non vuole sapere. Ma noi superstiti non siamo il governo ruandese. È come se noi dicessimo che ogni Francese è colpevole del genocidio dei Tutsi. È assurdo. È la Francia che è colpevole di complicità di genocidio, non i Francesi. La Francia discredita il Ruanda di oggi agli occhi del mondo.
SEKAMANA Jean-Marie-Vianney Circa 36 anni, veterinario, in prigione a Butare
J-M-V.S. – Personalmente, quello che accetto, è che sono stato solidale con gli assassini che erano con me alle barriere. Ma non ho ucciso nessuno con le mie mani. Ma poiché ero con le persone che hanno assassinato, mi dichiaro colpevole. Dividiamo i torti, per solidarietà. Non ho tagliato nessuno con il machete né con il coltello, non avevo fucile per sparare, non ho nemmeno assistito a nessun assassinio. Ma poiché ne perpetravano a qualche metro da dove stavo…
Y.M. – Ma tu, in quanto rappresentante dell’autorità, davi l’ordine di prendere i Tutsi…
J-M-V.S. – No. Eravamo solo insieme…. Si camminava la notte, gli assassini entravano nella casa di una famiglia che conoscevano, ma io, io restavo sulla strada.
Y.M. – Testimoniano contro di te?
J-M-V. S. – Testimoniano contro di me dicendo che ero con loro, ma non dicono che ho ucciso.
Y.M. – Ci sono dei sopravvissuti nella tua cellula?
J-M-V. S. – Si. C’erano dei Tutsi. Ma non erano là. Erano fuggiti.
Y.M. – No. Quelli che erano là al momento in cui avete fatto il genocidio.
J-M-V.S. – Ah! Quelli? Erano nascosti e non li abbiamo visti.
Y.M. – E il bimbo tutsi che accudiva le vostre mucche, dove si è nascosto?
J-M-V.S. – È rimasto da me, a casa.
Y.M. – E non si sapeva che era Tutsi?
J-M-V.S. – Quando si è saputo, era troppo tardi.
T. Laetitia 30 anni, superstite, Kigali
L.T. – Il 7 aprile, abbiamo dato dei soldi a dei militari per negoziare la nostra salvezza. Il 9 aprile 1994, abbiamo cercato rifugio alla Scuola tecnica officiale. Era piena, i Caschi blu la proteggevano. Ma dopo quattro giorni, il generale R è venuto a discutere con loro e hanno fatto i bagagli e ci hanno abbandonato. Subito dopo la loro partenza, delle granate sono cadute tra la folla, lanciate dalla pista dai miliziani. Siamo scappati disperdendoci nelle strade, con la vaga idea di rifugiarci allo stadio Amahoro. Ma i miliziani ci hanno circondato. Abbiamo fatto segno ad alcuni veicoli di altri Caschi blu che passavano davanti a noi ma non si sono fermati. È allora che un ufficiale ha dato l’ordine ai miliziani di farci salire sulla collina di Kicukiro e di sopprimerci lassù, in modo da evitare che i nostri cadaveri impestassero Kigali. In cima alla collina, abbiamo subito un diluvio di granate, ho visto dei brandelli di carne volare nell’aria. Un’ora e mezza dopo, i miliziani sono entrati nella folla e ci hanno tagliato a pezzi con i machete. Al secondo colpo, sono svenuta. Quando mi sono svegliata, ero completamente nuda. Eravamo forse una decina di superstiti. Ci siamo nascosti nei cespugli. Allora un militare dei FAR è passato vicino a noi. L’abbiamo chiamato e gli abbiamo chiesto di finirci. Ma ha rifiutato. È andato a cercare dell’acqua, poi ci ha indicato una via tramite la quale, venuta la notte, avremmo potuto raggiungere le posizioni del FPR. Così sono stata salvata. Ma dopo il genocidio, ho avuto delle voglie strane. M piaceva mangiare la terra. Ne mangiavo molta e non è molto che ho smesso. Mi piaceva anche il gusto della polvere.
Y.M. – E che speranza hai oggi?
L.T. (sorridendo) – Non ho speranza. Non posso stare molto al sole, altrimenti svengo. Mi basterebbe una piccola somma di denaro per aprire un piccolo commercio, ma so che non l’avrò mai.
Y.M. – Quanto?
L.T. – 150.000 franchi ruandesi. (L’equivalente di 15.000 franchi belgi, 600.000 Lire).
Partimmo per Butare, io e Alexis, attraverso quell’unica lunga strada praticabile che passava per Gikongoro. Appena usciti da Nyanza, ci rendemmo conto che c’eravamo cacciati in un guaio. Un grosso guaio. Eravamo nel bel mezzo della ritirata dei soldati.
Procedevamo a passo d’uomo, attorniati dai militari. Ebbi veramente paura. Mi rendevo conto che ognuno di loro era un potenziale pericolo. Erano sbandati, disperati, stanchi, molti ubriachi, di sicuro disposti a tutto. Certamente pensavano che la nostra macchina poteva portarli rapidamente lontano. E sapevano che, come tutti i bianchi, non viaggiavamo mai senza soldi. Avevo con me un migliaio di dollari, la cifra che più o meno portavo sempre. Per quella gente che ci camminava intorno era una fortuna. Percepivo la minaccia incombente.
Feci salire in macchina il primo ufficiale che vidi sulla strada. Non contava granché, ma era meglio di niente. La divisa di un ufficiale poteva almeno fare da deterrente nei confronti di qualche scalmanato.
Dopo qualche chilometro avemmo il primo contatto con la popolazione. Era l’intera città di Nyanza che scappava: macchine, moto, biciclette stracariche. La gran parte dei fuggitivi procedeva a piedi, col materasso e i sacchetti in testa, con le stoviglie e un po’ di legna per far da mangiare, madri e padri con i figli in spalla, maiali, capre, vitelli, vacche, cani. Ognuno portava via ciò che poteva.
Il tempo passava, lento, sempre viaggiando alla velocità del fiume umano. Impiegammo nove ore per percorrere i 35 km che separano Nyanza da Gikongoro. L’importante era per noi riuscire al più presto a piegare verso sud, in direzione di Butare. L’Fpr, se fosse giunto rapidamente in quella zona, avrebbe certamente proseguito verso ovest. Trovarsi bloccati dalla folla con i combattimenti alle spalle non sarebbe stata la migliore delle situazioni.
Arrivammo in vista di Butare alle cinque e mezzo del pomeriggio, ma la macchina ormai non andava più. Il radiatore sbuffava da tutte le parti, ogni quarto d’ora dovevamo riempirlo d’acqua. Stavamo fondendo il motore, se l’avessi spento non saremmo più ripartiti. Il fuoristrada aveva viaggiato troppo a lungo a passo d’uomo.
Arrivati al vescovado, chiedemmo ospitalità per la notte. Eravamo esausti, per la fatica e la tensione. E molto preoccupati per le sorti dell’orfanotrofio.
Il mattino dopo chiamai subito: «Stiamo bene, il peggio è passato», esordì padre Giorgio. «Nyanza ormai è stata conquistata dall’Fpr». Ma aggiunse che alle quattro del pomeriggio precedente avevano passato un brutto momento. I militari governativi, in fuga, li avevano minacciati, avevano rubato un veicolo e tutti i soldi che erano riusciti a trovare.
I soldati dell’Fpr erano giunti poco dopo. Avevano chiesto a tutti di restare sul posto e di non muoversi. «Ora i problemi sono altri», concluse. «Abbiamo poca acqua. Non c’è energia elettrica e le pompe dei pozzi non funzionano».
Né io né Alexis conoscevamo i nuovi arrivati. Ovviamente non avevamo amicizie fra gli uomini del Fronte patriottico. Non potevamo fare nulla per organizzare un immediato trasferimento dei bambini lontano dalla zona di combattimento. Lui decise di rimanere a Butare, per controllare le condizioni dei diversi centri dei bambini di cui si prendeva cura. Io andai a cercare un’auto per rientrare in Burundi.
Ottenni un passaggio in un minibus che andava alla frontiera. Appena di là, trovai un mio impiegato ad aspettarmi, con una macchina mandata da mio fratello. La famiglia non aveva mie notizie da quattro giorni. Seppi solo più tardi che a Bujumbura era circolata la notizia che proprio sulla strada tra Butare e Nyanza erano stati uccisi dei bianchi. La notizia si rivelò infondata, ma solo dopo il mio rientro.
A casa erano tutti nel panico. Perché Arturo aveva mandato la macchina ad aspettarmi? Perché in Africa queste cose si fanno. Se e quando fossi arrivato al confine, sarei passato di là. Lui lo sapeva. In ogni caso una macchina pronta poteva essermi molto utile.
Arrivai a casa verso le quattro del pomeriggio. Non c’era nessuno. Mariann rientrò un’ora dopo. Mi guardò, per lunghi istanti rimanemmo in silenzio. Poi mi abbracciò e disse: «Sono contenta di vederti». Nient’altro. Ma in quel momento vidi nei suoi occhi che doveva aver sofferto terribilmente. Decisi che dovevo fermarmi. Promisi a me stesso che non sarei più andato oltre confine.
In famiglia siamo in sei: tre fratelli e tre sorelle. Mi presi la ripassata da tutti. Più dolci le sorelle, un po’ più rudi (per usare un eufemismo) i fratelli: Arturo, quello che vive a Bujumbura, mi mandò semplicemente a quel paese, ma non disse di più, forse perché era troppo contento di vedermi; Paolo, il più giovane, invece, mi telefonò dal Belgio. Era incazzato nero, ed era comprensibile. A migliaia di chilometri di distanza aveva vissuto per quattro giorni attaccato al telefono: «Piantala, razza di imbecille. Tua moglie ti aveva ormai dato per morto. Ma chi te lo fa fare?»
Già, chi me l’ha fatto fare? Non me l’ero mai chiesto fino in fondo. E forse non saprei rispondermi neanche adesso.
Bisesero è una regione montuosa situata a circa 31 km dalla città di Kibuye, capoluogo dell’omonima prefettura, situata in riva al Lago Kivu. Storicamente la maggior parte della gente del Bisesero erano Tutsi, la cui attività principale era la pastorizia. Erano chiamati Abasesero, un nome da cui la provincia ha derivato il suo nome. Durante il genocidio del 1994, la gente nelle altre prefetture era stata decimata a causa del suo numero esiguo e dell’uso di armi tradizionali a mano. Invece i Tutsi che vivevano nel Bisesero e nelle regioni circostanti si riunirono su una collina per resistere agli assassini – che erano i loro vicini e altri Hutu dalle aree circostanti. Ecco perché questa collina adesso è chiamata la “Collina della Resistenza”. Essi per alcuni giorni ebbero successo perché scelsero la cima di una collina dove c’erano molte rocce che tiravano agli attaccanti che avanzavano armati di picche e machete. Dopo molti giorni di resistenza, i rinforzi Hutu della Guardia Repubblicana di Kigalie i miliziani Interahamwe organizzarono un serio attacco contro i Tutsi rifugiatisi sulla collina. Questi nuovi attaccanti venivano armati con moderne e potenti armi. Contro questo nuovo assalto, la gente di Bisesero non poté resistere a lungo e perciò soccombettero al genocidio. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti, soltanto pochi Tutsi che vivevano nel Bisesero sfuggirono. Durante questo attacco furioso quasi 50.000 persone della regione vennero massacrate. Nel 1996 subito dopo il genocidio, diversi sopravvissuti si riunirono coi membri dell’associazione di sopravvissuti “Kibuye Solidarity” ed ebbero l’idea di radunare in un unico posto i resti di tutte le vittime sparsi in differenti colline e valli, al fine di seppellirli con dignità. Così, scelsero Bisesero “la Collina della Resistenza”. Oggi, un grande numero di quei resti è stato sepolto, ma un numero ridotto è stato conservato per essere sistemato nel memoriale dove saranno mostrati per preservare il ricordo di ciò che successe a Bisesero. Questo memoriale è composto da nove piccoli edifici che rappresentano i nove comuni che costituivano la provincia di Kibuye. Dal 1998 con le cerimonie ufficiali di sepoltura in collaborazione con INMR, il ministero della gioventù, dello sport e della cultura ha iniziato il trattamento delle ossa umane e dei teschi, prima di esporli nelle nove case. Al momento, queste case non hanno l’equipaggiamento per conservare i resti umani e gli altri oggetti. Qualche testimonianza orale di ciò che accadde a Bisesero è stata registrata da African Rights.
Un anno e mezzo prima del genocidio, Jean Carbonare dell’associazione Survive rilascia al TG francese delle ore venti questa toccante testimonianza sulle persecuzioni contro la minoranza Tutsi. E’ il 24 gennaio 1993: un anno e mezzo prima del genocidio!
Tredicesima settimana: 30 giugno 1994 –6 luglio 1994
1 luglio: Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU istituisce una commissione di esperti per investigare gli atti di genocidio in Ruanda. Il camerunese Jacques-Roger Booh-Booh, a capo dell’UNAMIR, viene sostituito dal pachistano Moahamed Shaharyar Khan.
2 luglio: Boutros-Ghali supporta la proposta francese di creare una “zona di sicurezza” nel sud-ovest del Ruanda per proteggere la popolazione vulnerabile della regione.
3 luglio: Il FPR prende Butare.
4 luglio: Il FPR conquista il controllo di Kigali. La leadership del FPR dichiara che intende stabilire un nuovo governo basato sugli accordi di Arusha.
5 luglio: Dopo il definitivo allontanamento delle FAR da Kigali e Butare i francesi stabiliscono con l’operazione Turquoise una “Zona Umanitaria Sicura” (ZHS) nell’angolo sud-occidentale del paese. In questa zona si rifugiano i responsabili del genocidio (tra cui gli speaker della RTLM) e anche le popolazioni sotto il loro controllo. Proseguono i massacri dei Tutsi sopravvissuti nella “Zona Umanitaria Sicura”.
6 luglio: I voli di soccorso canadesi verso Kigali sono ripristinati.
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
BAGABO Anselme, detto Cassius 24 anni, superstite, Nyamirambo
Y.M. – Perché hai l’aria cosi triste?
Cassius – Durante il genocidio, sono stato tradito da un Tutsi. Mi ha cacciato da casa sua.
Y.M. – Mi dicono che hai cominciato degli studi dopo il genocidio…
Cassius – Si, la medicina. Avevo come ideale di aiutare gli esseri umani. Ma dopo tre anni ho abbandonato.
Y.M. – Perché?
Cassius – Vorrei poter aiutare le persone senza essere in contatto con loro. Mi piacerebbe studiare farmacia. O diventare tecnico di laboratorio, lontano dagli esseri umani ma al loro servizio. E lontano dal Ruanda, se fosse possibile. In Ruanda, c’é una tale aggressività.
Y.M. – Ti senti disperato?
Cassius – Si, lo ero. Ho pensato di suicidarmi. E ora so che non sono più disperato.
Y.M. – Da quando?
Cassius – Da quando ho parlato con te.
Y.M. – Cosa ti aspetti da me?
Cassius – Voglio che tu rappresenti per me una madre. Una persona alla quale posso dire tutto essendo sicuro che lei capirà e che non mi giudicherà.
Y.M. – Non penso poter fare molto per te, ma ti ascolterò.
KAJUGU Pierre 26 anni, ex militare, in prigione a Butare
Y.M. – Che cosa pensi degli artefici dei genocidio, coloro che vi hanno fatto fare il genocidio, che sono in esilio al riparo dalla giustizia, mentre voi marcite nelle prigioni?
P.K. – Ecco dove sta il problema. Mi si diceva che il generale Ndindiliyimana era il capo dello stato maggiore. E all’improvviso si viene a sapere che durante il genocidio è stato nominato ambasciatore del Ruanda dal governo genocida di Kambanda. Se i miei ricordi sono esatti, è in Canada. Ha voluto partire e sembra che quel giorno si erano messi dei veicoli davanti all’aereo per impedirne il decollo. Non ho mai saputo da dove è passato per uscire dal paese. Inoltre sua moglie era ancora a casa, nello stesso comune di Nyaruhengeri, il suo comune natale. La moglie è uscita da li verso la fine di giugno. In Europa, non si parla di sua moglie. La moglie, non l’ho vista uccidere ma lei mandava i soldati che la sorvegliavano sulle colline per uccidere. C’erano più di otto gendarmi a casa sua e lei era sempre via con loro. Non mi rivolgeva la parola, perché non ero del suo rango.
Y. M. – E quando hai ucciso, chi te ne ha dato l’ordine?
P.K. – Il consigliere comunale era là. Ha detto: “Noi uccidiamo per ordine del generale Ndindiliyimana. È lui che ha dato l’ordine.” Era lo zio del generale Ndindiliyimana. Siamo stati anche arrestati dopo il genocidio, il consigliere ed io, e il consigliere ha spiegato che era il generale che aveva dato l’ordine. Ha spiegato che gli ordini del generale erano molto chiari e spiegati molto bene, e che il generale, suo nipote, veniva spesso a casa da lui. È stato Ndindiliyimana a dare l’ordine di uccidere Nzeyimana Ignace e Munyanshongore Célestin, che erano i suoi vicini. Munyanshongore, sono stato io ad ucciderlo.
MUKARUSINE Hélène 40 anni, superstite, Ngoma (Butare)
H.M. – Mio marito era Ugandese. È fuggito con me, per proteggermi. Ad una barriera, ha pagato 90.000 franchi perché non fossi assassinata.
Y.M. – Dove siete fuggiti?
H.M. – Non siamo riusciti a raggiungere il Burundi, allora siamo tornati verso Gikongoro e ci siamo imbattuti nei soldati francesi della zona Turquoise. Gridavano “Tutsi, Tutsi!” e ci hanno obbligati a salire sul loro camion. Invece di portarci al sicuro, ci hanno condotto verso Murambi, alla scuola in costruzione. Qualche giorno dopo, abbiamo dovuto fuggire perché gli assassini circondavano la scuola…
Y.M. – E oggi, come ti senti?
H.M. – Posso dire che sono una donna felice. Nel genocidio ho perso solo mio marito. E inoltre, non è stato ucciso. È morto di un diabete che non ha potuto curare. Certo, se non ci fosse stato il genocidio, non sarebbe morto. Ma è così. Bisogna accettare.
Y.M. – Ora che hai perso tuo marito, pensi di rifarti una vita?
H.M. – No, per niente. Sono diventata un uomo. Vendo della carne al mercato, come facevano gli uomini prima del genocidio. Ma a volte sento che ho bisogno di un sostegno maschile. Cerco di non pensarci. Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti moralmente e mi consigli. Non puoi sapere quanto mi fa bene la tua visita. Non parlo mai con nessuno del genocidio e soprattutto non ne parlo con i miei figli.
Così accadde al testimone che con gli scritti e con le parole ha annunciato la loro tragedia e la loro fine. Egli se ne sta col peso della sua promessa di ricordare i morti, se solo gli riuscisse di ritornare in Occidente, Ma nessuno lo vorrà più ascoltare.
Sono passati cinquant’anni. Popoli anche più grandi hanno sofferto grandissimi dolori. Pieno di riguardo e quasi con una cattiva coscienza, il testimone è là, ha visto qualcosa che nessuno avrebbe potuto vedere senza rischiare la sua vita. Non significa forse che egli deve morire come chi ha veduto il volto di Dio?
Anche attorno a lui si è creato il silenzio. In qualsiasi direzione si rivolga, bussa a porte chiuse: “Abbiamo il nostro dolore!” Così pensano o dicono “Abbiamo le tragedie dei nostri popoli, perché dobbiamo angustiarci del dolore di altri, da lungo tempo dimenticato!”.
Essi vogliono vivere senza preoccupazione e tristezza, trascorrere i loro giorni senza sapere nulla della violenza e dell’affanno che hanno colpito le generazioni che li hanno preceduti. Quando il testimone di questi orrori, all’inizio degli anni Venti, presagendo che la stessa cosa sarebbe potuta accadere in Occidente, illustrò con innumerevoli fotografie e con tutti i documenti che aveva potuto raccogliere nei campi di sterminio, quello che aveva visto, coloro che ne vennero a conoscenza, in Germania e nei Paesi vicini, reagirono con spavento e tuttavia pensarono: “ Il deserto arabico è così lontano!”
Armin Theophil Wegner (1886-1978) arruolato nel primo conflitto mondiale nell’esercito tedesco, è stato un autore prolifico, un esponente dell’Espressionismo tedesco, un attivista dei diritti umani e una vittima delle persecuzioni naziste. E’ stato premiato con la Croce di Ferro per il suo servizio alla Germania durante la guerra ed è stato riconosciuto dallo Yad Vashem come “Giusto tra le nazioni” per aver rischiato la sua vita combattendo l’antisemitismo sotto il nazismo. Di stanza nei territori dell’impero ottomano durante la Prima Guerra Mondiale Wegner fu testimone del genocidio degli Armeni. Scattò centinaia di fotografie degli eventi e si prodigò in sforzi estenuanti per pubblicizzare le persecuzioni contro gli Armeni, sperando che il popolo Tedesco si potesse indignare per il trattamento riservato agli Armeni quando avesse conosciuto la piena verità dei fatti. Questi sforzi includono una lettera aperta al presidente americano Woodrow Wilson in cui Wegner chiedeva un intervento degli Stati Uniti a favore degli Armeni. Nel 1933 scrisse un’altra lettera appassionata, questa volta ad Adolf Hitler a favore degli Ebrei di Germania. In quella lettera sostenne che la persecuzione degli Ebrei non era una questione di “destino dei soli fratelli Ebrei, ma anche del destino della Germania”. Facendo notare che stava scrivendo quella lettera come un tedesco orgoglioso le cui origini familiari prussiane potevano risalire indietro fino ai tempi delle Crociate, Wegner chiese a Hitler cosa sarebbe diventata la Germania se avesse continuato la sua persecuzione degli Ebrei. Rispondendo alla sua stessa domanda, Wegner dichiarò: “Non c’è una Terra dei Padri senza giustizia!”