Testimonianze dal genocidio
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
MUKANTESI Francine
14 anni, superstite, Nyamata
Y.M. – Il giorno in cui il presidente è morto, dove siete fuggiti, tu e la tua famiglia?
F.M. – Nella chiesa di Ntarama e alle paludi.
Y.M. – Spiegami. Quali paludi?
Francine tace all’improvviso. Non c’è più modo di farle dire una parola. Le racconto la mia storia di superstite. Quando le dico che avevano addirittura annunciato alla radio che ero morta, Francine ride e mi abbraccia. Ha ritrovato la fiducia e mi racconta la sua fuga e come i suoi genitori sono stati uccisi.
Y.M. – E che cosa hai fatto dopo il genocidio?
F.M. – Sono stata affidata ad una donna superstite, mutilata del braccio destro e a suo marito. Mi occupo dei loro bambini.
Y.M. – Vai a scuola?
F.M. – Non sono più stata a scuola dal genocidio. Mi sono fermata alla seconda elementare.
Y.M. – Hai voglia di tornare?
F.M. – Si, certo.
Y.M. – Sei pronta a studiare con bambini di nove anni?
F.M. – Ne sarei felice.
Y.M. – E per il momento, non sei felice?
Lungo silenzio.
Y.M. – Ti farò tornare a scuola in settembre.
Francine sorride dolcemente.
Emeline
20 anni, superstite, Kigali
E. – Non ero con i miei genitori quando il presidente è morto, ero dalla mia madrina. Era abbastanza lontano da casa mia, non sono potuta tornare e ho cercato di fuggire con la sua famiglia. Il consigliere comunale ci aveva promesso la sua protezione, era un grande amico della mia madrina. All’inizio, non mi voleva ma poi ha accettato. Ad un certo punto, non potevamo più restare rinchiusi, dovevamo muoverci perché gli omicidi aumentavano. Abbiamo dovuto separarci per proteggerci meglio. Alla fine, tutta la famiglia è stata uccisa, io sono l’unica sopravvissuta.
Tutto questo fa parte del passato, la vita continua ma faccio fatica ad affrontarla perché provo un dolore molto profondo.
Y.M. – Spiegami.
E. – Non riesco ad occuparmi degli orfani dei miei fratelli e delle mie sorelle. Sono tutti ospitati in famiglie hutu che erano nostri vicini. I bambini non vogliono restarci, sono infelici, pensano che si tratta delle stesse persone che hanno ucciso i nostri cari.
Y.M. – Cosa pensi fare oggi?
E. – Non lo so, ho solo 20 anni, ho appena terminato i miei studi di lettere classiche. Se lavorassi ora, non avrei mai uno stipendio abbastanza alto per occuparmi bene di loro. Ma ho anche dei dubbi se continuare i miei studi perché so che i piccoli non stanno bene là dove sono.
Y.M. – Che cosa desideri prima di tutto?
E. – Una casa per farci vivere i bambini.
NDAHIMANA Matthieu
35 anni, assistente medico, in prigione a Butare
Durante tutto il colloquio, Matthieu sembra rivedere il film dell’orrore che ha compiuto. La sua elocuzione è a scatti, puntuata da lunghi silenzi durante i quali il suo sguardo erra al suolo. Poi, come se tornasse in sé, mi guarda di nuovo come per trovare in me la forza di parlare.
M.N. – Vorrei dirvi, signora, che ho tradito la mia professione e la mia coscienza … Ho ucciso quando avevo come missione di salvare la vita … Ho cercato di incontrare le persone alle quali avevo fatto del male … Il mio rammarico è ancora più forte perché, dopo il genocidio, sono stato accolto dalle famiglie di coloro che avevo ucciso… Mi dicevano che non capivano come avevo potuto partecipare al genocidio e che ero sempre stato un uomo esemplare. È vero. Neppure io capisco cosa mi è successo … Quello che so, è che mi hanno insegnato a sparare con un fucile, e che ho sparato. Due volte. Proprio in mezzo ad una folla di donne e di bambini … Ringrazio Dio di essere ancora vivo per poter chiedere perdono … Ma io sono un uomo morto …
Y.M. – E io, Matthieu, vi dico che siete ancora vivo perché ora sapete dove si trova il male, chiedete perdono e cercate di lavorare per la pace tra i Ruandesi. Sareste disposto a girare il mondo con me per testimoniare, voi come artefice del genocidio, io come vittima, per riportare la pace nell’umanità?
M.N. – Si. Certo. Sono pronto.
Matthieu piange a lungo, la testa tra le mani. Ed io pure.
luglio 23rd, 2009
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
R. Pacifique
43 anni, superstite, Ntarama
“I nostri padri ci dicevano che nella chiesa di Dio, gli assassini non sarebbero mai entrati. Dal 1959, rifugiarsi nelle chiese è un abitudine dei Tutsi. Ci siamo semplicemente e naturalmente rifugiati in quella di Ntarama. Ma era piena. Gli assassini sono arrivati, hanno ordinato agli Hutu di uscire. Mia madre è andata avanti dicendo “sono Hutu”. È stata ammazzata sotto i nostri occhi. Mio padre e mia sorella incinta di nove mesi furono uccisi subito dopo, a colpi di mazza. Gli assassini hanno poi lanciato delle granate e alla fine sono entrati nella chiesa e ci hanno ucciso all’arma bianca. Sono riuscito a salvarmi con mia moglie e i miei figli. Siamo andati alla scuola di Cyugaro per raggiungere gli altri resistenti. “Sono indignato, dichiarò un certo Simon U. contemplando il numero di Tutsi ancora vivi nella scuola.” Poi, girandosi verso gli artefici del genocidio che lo circondavano, aggiunse: “Visto che siete degli incapaci, vado a cercare dei veri Interahamwe.” Dicendo questo, se ne è andato al volante del suo camioncino ed è tornato un’ora dopo accompagnato da molti Interahamwe che ci hanno attaccato con le granate. Alla sera, siamo riusciti a liberarci. C’erano molti morti. Siamo andati dal borgomastro … “Ovunque andiate, ci ha detto, incontrerete un Hutu. Deve uccidere, è il suo lavoro. Restate piuttosto tranquilli a casa vostra e lasciatevi massacrare con dignità.” Siamo tornati alla scuola, ma poco dopo quattro bus noleggiati dal comune hanno riversato i loro miliziani. Il combattimento è iniziato immediatamente. Granate da una parte, frecce e pietre dall’altra, machete e archi mischiati in una battaglia spaventosa. Vinti dal numero e dalle loro armi da fuoco, alla fine abbiamo dovuto ripiegare nelle paludi di papiro, dove abbiamo cominciato una vita un po’ vegetativa. Finché, all’improvviso, due settimane più tardi, una voce tuona: “Siamo il FPR. Fatevi vedere. Vi proteggeremo.” All’inizio non ci credevamo, perché temevamo che fosse un appello degli Interahamwe. Ma no, era davvero il FPR. Siamo stati condotti a Nyamata appena liberata. Là, ascoltavamo RTLM che diceva che il Bugesera era nelle mani dei FAR. Questa notizia ci ha fatto ridere perché si sapeva che il Bugesera era controllato dal FPR. Ma altri ci hanno detto che era un modo di far credere agli Interahamwe che non avevano perso la guerra e che dovevano continuare il genocidio. I medici del FPR ci hanno curato, ci hanno messo al regime d’acqua e le nostre gambe si sono progressivamente sgonfiate.”
NSANZURWIMO Patrice
79 anni, coltivatore, in prigione a Butare
Y.M. – Come avete cominciato ad uccidere?
P.N. – Ero seduto su una pietra della mia parcella. Sei gendarmi arrivano con i loro fucili. “Vieni con noi.” Li ho seguiti. Mi hanno portato davanti alcuni prigionieri e mi hanno dato un manganello coperto di chiodi.” Allora, vecchio, mi ha detto uno di loro, o ammazzi queste persone o ti freddiamo.” Allora ho cominciato a colpire i prigionieri.
Y.M. – Dove li colpivate?
P.N. – Sulla testa.
Y.M. – Quante volte?
P.N. – Due volte.
Y.M. – Nessuno si è difeso?
P.N. – No, per niente.
Y.M. – Quanto è durato tutto questo?
P.N. – Ho cominciato verso le otto e finito verso mezzogiorno.
Y.M. – Quattro ore! Ma quanti ne avete ammazzati?
P.N. – Devo averne ammazzati un po’ più di cento.
Y.M. – Allora, avete colpito duecento volte?
P.N. – Si.
Patrice risponde alle mie domande con vivacità e con un tono un po’ teatrale, ma quando gli domando se gli dispiace, è come colpito dallo stupore.
P.N. – Se ci fosse un nuovo genocidio, signora, scaverei un buco per nascondermi ed evitare di essere costretto ad ammazzare.
Y.M. – Sapete, trovo che noi, Ruandesi, meriteremmo di sparire per non contaminare gli altri popoli con il nostro crimine.
Innocent R.
32 anni, Twa, in prigione a Butare
Y.M. – Tu sai bene me che in tutta la storia del Ruanda, i Twa erano amici dei Tutsi. Allora, raccontami come mai li avete uccisi.
I.R. – Il cognato del brigadiere è venuto a dire che eravamo degli esseri insignificanti e che dovevamo inseguire i Tutsi scappati nella foresta, perché altrimenti saremmo stati tutti uccisi.
Y.M. – E tu hai partecipato a questa caccia?
I.R. – Sì. Ho ucciso tre Tutsi. Un certo Karasira, con un colpo di manganello. Un certo Vianney, che era un mio amico, con un colpo di lancia. E un bambino di 12 anni, con diversi colpi di pugnale.
Y.M. – Qual era il tuo stato d’animo mentre facevi queste cose?
I.R. – Era un po’ come un’epidemia. Prima di uccidere la prima volta, avevo paura. Ma dopo il primo assassinio, sono diventato molto cattivo e molto crudele. Era come se dentro di me fosse cresciuta una grande collera contro i Tutsi, senza che ne capissi il perché. Le nostre azioni non erano premeditate, agivamo sotto il dominio di una collera irrazionale fomentata in noi dalle autorità. Non ero più un essere umano.
Y.M. – E dopo, come ti sei sentito?
I.R. – Quando mi hanno arrestato, mi sono sentito sollevato e ho confessato direttamente. Era così bello tornare ad essere un essere umano. Oggi, mi rimetto alla giustizia degli uomini, accetterò la pena che mi sarà inflitta, anche se si tratta della morte. E per l’eternità mi affido alla giustizia di Dio.
luglio 18th, 2009
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
G. Augustin
36 anni, resistente di Bisesero (Kibuye)
A.G. – Le donne e i bambini raccoglievano i sassi e gli uomini combattevano con gli assassini. Abbiamo cercato di andare sulle colline. C’erano dei camion e dei bus pieni di miliziani e di persone, provenienti da varie zone, che si erano unite a loro. Bisesero è diventato un campo di battaglia. Ci siamo raggruppati sulla collina di Muyira. Gli assassini l’hanno circondata. Hanno cominciato il loro lavoro. I morti erano numerosi, Muyira era coperta di cadaveri di donne, di uomini e di bambini. Siamo stati attaccati tutti i giorni fino all’arrivo dei Francesi. Non eravamo più in molti ed eravamo indeboliti dalla fame, dalle ferite e dal dolore.
Y. M. – I Francesi vi hanno aiutato?
A.G. – I soldati francesi? Sono venuti a dare man forte agli autori del genocidio! È tutto. Ci hanno disarmato, hanno combattuto il FPR, ci sono stati persino dei morti tra loro. Ho visto il cadavere di un soldato francese. Per me, i Francesi sono venuti a sostenere il genocidio.
Y.M. – Non pensi di esagerare un po’?
A.G. – Per niente. I Francesi, nella loro logica di sostegno al governo genocida, ci vedevano come dei nemici. Hanno permesso agli artefici del genocidio di fuggire in Zaire. Per me, i Francesi sono degli assassini.
Y.M. – Per te è importate testimoniare?
A.G. – Il nostro dolore non impedisce al mondo di dormire. Ma ci resta solo la parola. Abbiamo perso tutto, tranne la nostra lingua. Allora, che altro possiamo fare se non testimoniare? Oggi, alla Francia non piace il governo ruandese, quello che ha fermato il genocidio. E per questo non ascolta la nostra testimonianza, non vuole sapere. Ma noi superstiti non siamo il governo ruandese. È come se noi dicessimo che ogni Francese è colpevole del genocidio dei Tutsi. È assurdo. È la Francia che è colpevole di complicità di genocidio, non i Francesi. La Francia discredita il Ruanda di oggi agli occhi del mondo.
SEKAMANA Jean-Marie-Vianney
Circa 36 anni, veterinario, in prigione a Butare
J-M-V.S. – Personalmente, quello che accetto, è che sono stato solidale con gli assassini che erano con me alle barriere. Ma non ho ucciso nessuno con le mie mani. Ma poiché ero con le persone che hanno assassinato, mi dichiaro colpevole. Dividiamo i torti, per solidarietà. Non ho tagliato nessuno con il machete né con il coltello, non avevo fucile per sparare, non ho nemmeno assistito a nessun assassinio. Ma poiché ne perpetravano a qualche metro da dove stavo…
Y.M. – Ma tu, in quanto rappresentante dell’autorità, davi l’ordine di prendere i Tutsi…
J-M-V.S. – No. Eravamo solo insieme…. Si camminava la notte, gli assassini entravano nella casa di una famiglia che conoscevano, ma io, io restavo sulla strada.
Y.M. – Testimoniano contro di te?
J-M-V. S. – Testimoniano contro di me dicendo che ero con loro, ma non dicono che ho ucciso.
Y.M. – Ci sono dei sopravvissuti nella tua cellula?
J-M-V. S. – Si. C’erano dei Tutsi. Ma non erano là. Erano fuggiti.
Y.M. – No. Quelli che erano là al momento in cui avete fatto il genocidio.
J-M-V.S. – Ah! Quelli? Erano nascosti e non li abbiamo visti.
Y.M. – E il bimbo tutsi che accudiva le vostre mucche, dove si è nascosto?
J-M-V.S. – È rimasto da me, a casa.
Y.M. – E non si sapeva che era Tutsi?
J-M-V.S. – Quando si è saputo, era troppo tardi.
T. Laetitia
30 anni, superstite, Kigali
L.T. – Il 7 aprile, abbiamo dato dei soldi a dei militari per negoziare la nostra salvezza. Il 9 aprile 1994, abbiamo cercato rifugio alla Scuola tecnica officiale. Era piena, i Caschi blu la proteggevano. Ma dopo quattro giorni, il generale R è venuto a discutere con loro e hanno fatto i bagagli e ci hanno abbandonato. Subito dopo la loro partenza, delle granate sono cadute tra la folla, lanciate dalla pista dai miliziani. Siamo scappati disperdendoci nelle strade, con la vaga idea di rifugiarci allo stadio Amahoro. Ma i miliziani ci hanno circondato. Abbiamo fatto segno ad alcuni veicoli di altri Caschi blu che passavano davanti a noi ma non si sono fermati. È allora che un ufficiale ha dato l’ordine ai miliziani di farci salire sulla collina di Kicukiro e di sopprimerci lassù, in modo da evitare che i nostri cadaveri impestassero Kigali. In cima alla collina, abbiamo subito un diluvio di granate, ho visto dei brandelli di carne volare nell’aria. Un’ora e mezza dopo, i miliziani sono entrati nella folla e ci hanno tagliato a pezzi con i machete. Al secondo colpo, sono svenuta. Quando mi sono svegliata, ero completamente nuda. Eravamo forse una decina di superstiti. Ci siamo nascosti nei cespugli. Allora un militare dei FAR è passato vicino a noi. L’abbiamo chiamato e gli abbiamo chiesto di finirci. Ma ha rifiutato. È andato a cercare dell’acqua, poi ci ha indicato una via tramite la quale, venuta la notte, avremmo potuto raggiungere le posizioni del FPR. Così sono stata salvata. Ma dopo il genocidio, ho avuto delle voglie strane. M piaceva mangiare la terra. Ne mangiavo molta e non è molto che ho smesso. Mi piaceva anche il gusto della polvere.
Y.M. – E che speranza hai oggi?
L.T. (sorridendo) – Non ho speranza. Non posso stare molto al sole, altrimenti svengo. Mi basterebbe una piccola somma di denaro per aprire un piccolo commercio, ma so che non l’avrò mai.
Y.M. – Quanto?
L.T. – 150.000 franchi ruandesi. (L’equivalente di 15.000 franchi belgi, 600.000 Lire).
luglio 14th, 2009
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
BAGABO Anselme, detto Cassius
24 anni, superstite, Nyamirambo
Y.M. – Perché hai l’aria cosi triste?
Cassius – Durante il genocidio, sono stato tradito da un Tutsi. Mi ha cacciato da casa sua.
Y.M. – Mi dicono che hai cominciato degli studi dopo il genocidio…
Cassius – Si, la medicina. Avevo come ideale di aiutare gli esseri umani. Ma dopo tre anni ho abbandonato.
Y.M. – Perché?
Cassius – Vorrei poter aiutare le persone senza essere in contatto con loro. Mi piacerebbe studiare farmacia. O diventare tecnico di laboratorio, lontano dagli esseri umani ma al loro servizio. E lontano dal Ruanda, se fosse possibile. In Ruanda, c’é una tale aggressività.
Y.M. – Ti senti disperato?
Cassius – Si, lo ero. Ho pensato di suicidarmi. E ora so che non sono più disperato.
Y.M. – Da quando?
Cassius – Da quando ho parlato con te.
Y.M. – Cosa ti aspetti da me?
Cassius – Voglio che tu rappresenti per me una madre. Una persona alla quale posso dire tutto essendo sicuro che lei capirà e che non mi giudicherà.
Y.M. – Non penso poter fare molto per te, ma ti ascolterò.
KAJUGU Pierre
26 anni, ex militare, in prigione a Butare
Y.M. – Che cosa pensi degli artefici dei genocidio, coloro che vi hanno fatto fare il genocidio, che sono in esilio al riparo dalla giustizia, mentre voi marcite nelle prigioni?
P.K. – Ecco dove sta il problema. Mi si diceva che il generale Ndindiliyimana era il capo dello stato maggiore. E all’improvviso si viene a sapere che durante il genocidio è stato nominato ambasciatore del Ruanda dal governo genocida di Kambanda. Se i miei ricordi sono esatti, è in Canada. Ha voluto partire e sembra che quel giorno si erano messi dei veicoli davanti all’aereo per impedirne il decollo. Non ho mai saputo da dove è passato per uscire dal paese. Inoltre sua moglie era ancora a casa, nello stesso comune di Nyaruhengeri, il suo comune natale. La moglie è uscita da li verso la fine di giugno. In Europa, non si parla di sua moglie. La moglie, non l’ho vista uccidere ma lei mandava i soldati che la sorvegliavano sulle colline per uccidere. C’erano più di otto gendarmi a casa sua e lei era sempre via con loro. Non mi rivolgeva la parola, perché non ero del suo rango.
Y. M. – E quando hai ucciso, chi te ne ha dato l’ordine?
P.K. – Il consigliere comunale era là. Ha detto: “Noi uccidiamo per ordine del generale Ndindiliyimana. È lui che ha dato l’ordine.” Era lo zio del generale Ndindiliyimana. Siamo stati anche arrestati dopo il genocidio, il consigliere ed io, e il consigliere ha spiegato che era il generale che aveva dato l’ordine. Ha spiegato che gli ordini del generale erano molto chiari e spiegati molto bene, e che il generale, suo nipote, veniva spesso a casa da lui. È stato Ndindiliyimana a dare l’ordine di uccidere Nzeyimana Ignace e Munyanshongore Célestin, che erano i suoi vicini. Munyanshongore, sono stato io ad ucciderlo.
MUKARUSINE Hélène
40 anni, superstite, Ngoma (Butare)
H.M. – Mio marito era Ugandese. È fuggito con me, per proteggermi. Ad una barriera, ha pagato 90.000 franchi perché non fossi assassinata.
Y.M. – Dove siete fuggiti?
H.M. – Non siamo riusciti a raggiungere il Burundi, allora siamo tornati verso Gikongoro e ci siamo imbattuti nei soldati francesi della zona Turquoise. Gridavano “Tutsi, Tutsi!” e ci hanno obbligati a salire sul loro camion. Invece di portarci al sicuro, ci hanno condotto verso Murambi, alla scuola in costruzione. Qualche giorno dopo, abbiamo dovuto fuggire perché gli assassini circondavano la scuola…
Y.M. – E oggi, come ti senti?
H.M. – Posso dire che sono una donna felice. Nel genocidio ho perso solo mio marito. E inoltre, non è stato ucciso. È morto di un diabete che non ha potuto curare. Certo, se non ci fosse stato il genocidio, non sarebbe morto. Ma è così. Bisogna accettare.
Y.M. – Ora che hai perso tuo marito, pensi di rifarti una vita?
H.M. – No, per niente. Sono diventata un uomo. Vendo della carne al mercato, come facevano gli uomini prima del genocidio. Ma a volte sento che ho bisogno di un sostegno maschile. Cerco di non pensarci. Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti moralmente e mi consigli. Non puoi sapere quanto mi fa bene la tua visita. Non parlo mai con nessuno del genocidio e soprattutto non ne parlo con i miei figli.
luglio 5th, 2009
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
Innocent N.
36 anni, superstite, presidente di un’associazione di handicappati del genocidio, Nyamata
I.N. – Eravamo circa 20.000 resistenti. Insieme a molti altri, ci siamo rifugiati nella chiesa di Nyamata. Abbiamo resistito un mese. Là ho perso mia moglie e mio figlio appena nato. Alla fine, abbiamo dovuto fuggire nelle paludi di papiro.
Y.M. – Come hai perso la gamba?
I.N. – Sono saltato su una mina antipersone.
Y.M. – Come hai avuto l’idea di creare un’associazione di handicappati?
I.N. – Volevo che noi handicappati non fossimo costretti a mendicare. Volevo che grazie alle nostre idee e alle nostre capacità, fossimo in grado di prenderci cura di noi stessi.
Y.M. – Le ONG (organizzazioni non governative) presenti vi aiutano?
I.N. – Non proprio. Ho contattato Handicap International ma non mi hanno risposto. In cambio, ZOA, un’altra ONG, sembra volerci aiutare. Quello che più ci converrebbe, sarebbe trovare un’associazione in Europa che potesse sostenerci un po’.
Y.M. – E al momento, come fate funzionare l’associazione?
I.N. – Paghiamo una quota mensile di 100 franchi a testa. (cioè più o meno 500 lire)
HITIMANA Noël
Circa 50 anni, giornalista, Nyamirambo
La memoria di Noël diventa selettiva durante il colloquio …
Y.M. – Ti dichiari colpevole?
N.H. – Colpevole?
Y.M. – Cioè, coloro che accettano quello che hanno fatto, il loro lavoro durante il genocidio.
N.H. – Si, accetto quello che ho fatto, il mio lavoro durante il genocidio. Ma non mi sono dichiarato colpevole.
Y.M. – Pertanto, mi sembra aver sentito la tua voce, tu hai dato il mio nome alla radio, dicendo che ero morta. Non so se ti ricordi. Il 7 aprile mattina.
N.H. – Un comunicato o cosa? Si, è possibile. È possibile, perché i comunicati passavano.
Y.M. – Conosci Musoni? Era mio fratello. Eravate insieme all’ospedale di Kabgayi, durante il genocidio. Aveva voglia di chiederti se era vero che ero morta.
N.H. – Potevo sapere?
Y.M. – Si, visto che sei stato tu a dirlo alla radio!
N.H. – No. Questo non l’ho detto.
Y.M. – Eppure …
N.H. – NON L’HO DETTO!
Jean-Pierre Martin filmava il colloquio per RTL-Tvi.
J-P.M. – Perché avete accettato di lavorare per una radio che ha fatto parte della pianificazione del genocidio e che giorno dopo giorno incitava ad uccidere una parte della popolazione?
N.H. – Quando mi hanno chiamato per lavorare in questa stazione, si trattava di una radio libera, commerciale. Radio Télévision Libre des Mille Collines (radio televisione libera delle Mille Colline). Ed era autorizzata dallo Stato.
J-P.M. – Ma tutti i paesi occidentali avevano chiesto la sua chiusura.
N.H. – Perché non è stata chiusa?
J-P.M. – È a voi che lo chiedo.
N.H. – Io, non lo so.
NGANIMANA Paul
49 anni, superstite, Bugesera
Y.M. – Quando vedi come si fa la giustizia in Ruanda e ad Arusha, pensi che verrà il giorno in cui si fará una vera giustizia sul genocidio?
P.N. – È possibile, se c’è la volontà. Tutto quello che so è che bisogna avere una giustizia secondo le leggi sul genocidio, ma nello stesso tempo non dimenticare che si è prodotto in Ruanda e non altrove. Dire ai superstiti di portare cinque o più testimoni, quando si sa che si trattava di uno sterminio e che molte colline sono state rasate, è inumano. Avere un solo testimone è già difficile. Dove vogliono che troviamo molti testimoni? A meno di resuscitare i morti. È piuttosto un modo di scoraggiarci, noi i superstiti del genocidio. Finché la giustizia non sarà fatta, i Ruandesi non avranno futuro.
Y.M. – E cosa ne pensi della riconciliazione?
P.N. – Non ci credo affatto. Perché non si può obbligare alla riconciliazione. E come se si dicesse “Devi amare quella persona.” Si tratta di un sentimento che può venire solo dall’individuo. Non si può comandare questo sentimento. Non si può esigere che mi riconcili come non si può esigere che ami una certa persona. E poi, chi si riconcilia con chi? Gli assassini che sono ancora in libertà vogliono ancora assassinare. Fino al momento in cui loro non prenderanno l’iniziativa di venire a cercarci, noi superstiti, e dirci “abbiamo peccato contro di voi, perdonateci. Ecco la ragione per la quale l’abbiamo fatto”, finché non ci sarà questa sincerità, non si parlerà di riconciliazione. Che ci perdonino piuttosto, dal momento che non abbiamo fatto loro niente. E che smettano di ucciderci.
Paul è vedovo dal genocidio. Ha resistito a Ntarama con il suo neonato sulla schiena.
giugno 26th, 2009
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
Charles W.
45 anni, superstite, Bugesera
C.W. – Per noi il genocidio si preparava dal momento in cui hanno incominciato a misurarci il naso e le tempie. Qui, nel Bugesera, lo hanno fatto tra il 1970 e il 1973.
Y.M. – E durante gli anni novanta?
C.W. – Negli anni novanta, avevamo degli operai che in realtà erano dei militari inoltrati. Lavoravano di giorno e di sera assistevano a delle riunioni. Nel momento in cui hanno incominciato ad uccidere, sono stati i primi, con l’aiuto dei Francesi.
Y.M. – I Francesi?
C.W. – Sì, i Francesi! Avevano una barriera a Gahanga. Là, fermavano i Tutsi che avevano dei figli nel FPR e li consegnavano ai FAR.
Y.M. – Cosa ne pensi del modo in cui si rende giustizia oggi?
C.W. – Sono triste quando vedo che si fanno uscire dalle prigioni gli autori del genocidio con il pretesto che sono vecchi o malati, mentre loro hanno ucciso i loro simili nei letti. Come il mio vicino Fidèle, costretto a letto da molto tempo; l’hanno fatto a pezzi e non dimenticherò mai l’immagine di quel cane con il piede di Fidèle in bocca. Ora, ci si basa sull’assenza di prove o sull’età troppo avanzata per liberarli. Sapete come hanno ucciso l’unico figlio che avevo? Hanno giocato a calcio con lui, fino a quando è morto. Assistevo, impotente. Qualcuno può rispondere a questa domanda: “perché giocare con il mio bambino come se fosse un pallone?”. Ho l’impressione che sono gli assassini a fare giustizia oggi e vogliono fare uscire i loro dalle prigioni. Durante il genocidio, per ammazzare più facilmente la gente, la si faceva raggruppare nelle chiese, nelle scuole, negli stadi, etc. Ora si costruiscono dei villaggi per i superstiti del genocidio o per i poveri Tutsi rientrati dall’esilio. Chi può garantirmi che una volta raggruppati non saranno uccisi di nuovo?
Y.M. – Di che cosa vivi oggi?
C.W. – Cerco di coltivare qualcosa. Ho due figli nati dopo il genocidio e mi occupo di tre orfani del genocidio. Ma moglie ha un braccio tagliato. Non può aiutarmi.
Y.M. – Hai una casa?
C.W. – No. Occupo la casa di persone che sono andate via, ma se tornano dovrò lasciarla.
Y.M. – Cosa pensi dei Bianchi?
C.W. – Sono tutti uguali. I Belgi hanno creato la divisione tra noi inventando una carta d’identità etnica poi, sulla base di questa carta d’identità, i Francesi sono venuti ad appoggiare il genocidio. Se hai l’occasione di incontrare dei Francesi, chiedi loro se si ricordano della barriera di Nyanza a Kicukiro. E poi, che i Bianchi la smettessero di dire che ci sono stati tra 500 e 800.000 morti. Perché diminuiscono le cifre? Abbiamo perso 2 milioni di persone. Osano parlare di 500 a 800.000! Perché? Le persone come voi devono rinfrescar loro la memoria.
Y.M. – Continuerò a lottare per la verità. È tutto quello che posso fare. Quando sarò morta, lo saprete.
C.W. – Se non sei ancora morta, pensi che sia per pietà?
(risa)
MUNYAMBUGA Thaddée
45 anni, catechista, in prigione a Butare
Y.M. – Sembra che vi dichiariate colpevole?
M.T. – Si, mi dichiaro colpevole. Ma sono innocente.
Y.M. – Siete davvero innocente? Ma allora, perché dichiararsi colpevole?
M.T. – Ho solo impedito ai Tutsi di sfuggire ai gendarmi. Ma io, io non ho ucciso con le mie mani. Sono innocente.
Y.M. – E i Tutsi che avete consegnato ai gendarmi, sono morti?
M.T. – Nessuno è stato ucciso alla barriera che sorvegliavo, tranne i Tutsi del mio quartiere.
Y.M. – Parlo di quelli che voi avete consegnato ai gendarmi.
M.T. – Quei Tutsi, ho solo impedito loro di fuggire e li ho portati dai gendarmi. Ma non li ho uccisi. Non ho ucciso nessuno con le mie mani. Bisogna riconoscere la mia innocenza. Sorvegliavo solo la barriera. Ho solo ubbidito.
Y.M. – Ma avete ubbidito a delle persone che volevano uccidere!
M.T. – Sono innocente. Non ho sangue sulle mie mani.
Y.M. – E avete salvato delle persone?
M.T. – Non ho salvato nessuno. Ma c’erano solo due famiglie tutsi nel mio quartiere.
Y.M. – E loro sono morti?
M.T. – Si, sono morti. Ci sono stati pochi morti nel mio quartiere.
Y.M. – Credo che non abbiamo più niente da dirci.
Odette M.
32 anni, superstite, Nyamirambo (Kigali)
O.M. – Dall’assassinio del presidente, mio marito, mio figlio ed io ci siamo nascosti a casa di diverse persone. Ma il 24 aprile ci hanno trovato e portati alla barriera. Gli assassini hanno chiesto a mio marito la sua carta d’identità. Lui l’ha mostrata, è stato subito colpito con un manganello e poi freddato con tre pallottole nel petto. Uno dei nostri vicini è stato ucciso nello stesso momento: i miliziani l’hanno frugato, hanno trovato dei soldi e se li sono contesi. Approfittando della lite, uno degli assassini, di nome Antoine, mi ha fatto portare a casa sua. Là, mi ha nascosta sotto il letto con il mio bimbo. Ci sono rimasta cinque settimane. è così che mi sono salvata. Quando il FPR è arrivato, siamo stati riuniti insieme a molti altri superstiti, gli Interahamwe hanno gettato una granata sul nostro gruppo ed è così che sono stata ferita.
Y.M. – E ora, ti capita di avere paura degli Interahamwe o delle persone che hai visto uccidere? Ti capita di incontrarli?
O.M. – (sorridendo) Li incontro tutti i giorni! Sono i miei vicini. Ma non ho paura perché‚ non ho nessuna via d’uscita. Mi uccideranno quando lo vorranno.
Y.M. – E il tuo bambino si ricorda del genocidio?
O.M. – No, aveva solo un anno. A scuola, ne parla con i suoi compagni e mi chiede perché non ha il papà e perché io ho solo un braccio. Quando glielo spiego, mi dice “mamma, ti vendicherò; prima o poi, dovranno ridarmi il mio papà”.
giugno 16th, 2009
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
MVUGAYABAGABO
16 anni, figlio di un autore del genocidio, Mwurire
Y.M. – Nessuno querela tuo padre?
M. – No. Ma dicono che ha picchiato qualcuno. E che a causa dei colpi, la vittima si è ammalata di tubercolosi.
Y.M. – Ed era durante il genocidio?
M. – Si.
Y.M. – Conosci questa persona?
M. – Si. Si chiama Butare.
Y.M. – È morto o è ancora vivo?
M. – Non è morto. È diventato militare del FPR.
Y.M. – È vero che è ammalato di tubercolosi?
M. – No.
Y.M. – È diventato militare durante il genocidio?
M. – No. Dopo. Un anno fa, credo.
Y.M. – Era un vostro vicino?
M. – No. Noi abitavamo in cima alla collina. Lui, abitava sotto.
Y.M. – Era un Hutu o un Tutsi, Butare ?
M – Tutsi.
Y.M. – Forse hanno semplicemente fatto a botte durante il genocidio?
M. – No. Nemmeno. Quando papà era ancora vivo, mi ha detto di averlo incontrato e di avergli indicato un buon sentiero per evitare gli assassini.
Y.M. – Quindi ha mentito dicendo che tuo padre l’aveva picchiato?
M. – Si. Sono sicuro che papà non ha mai picchiato nessuno.
Y.M. – Di che cosa e morto tuo padre?
M. – Di malattia, qualche mese fa.
Mi giro verso Gasana, il guardiano del luogo: “Suo padre era un autore dei genocidio?” Gasana mi guarda con un sorriso malizioso.
Dopo il colloquio con il ragazzo, Gasana mi spiega che non ha voluto ferire quel ragazzo innocente, ma che suo padre era un artefice del genocidio e non uno dei minori.
Marie-Josée N.
31 anni, vedova di un Tutsi, sito di Murambi (Gikongoro)
M.-J.N. – Mio marito era Tutsi ed io sono Hutu. Era ingegnere. Lo supplicavo spesso di lasciare il paese, ma non voleva, aveva fiducia nella Comunità internazionale. Fiducia inutile. È stato ucciso mentre scappava nella foresta di Karama e il mio bambino ha avuto il collo tagliato per metà ed è diventato emiplegico. Inoltre oggi soffre di disturbi legati ad un trauma psicologico. La notte, gli capita di girarsi nel suo letto e di urlare: “Vengono ad uccidermi, vengono ad uccidermi!”. Non ho soldi per portarlo dal medico.
Y.M. – Che lavoro fai?
M.-J.N. – Lavoro ad un monumento commemorativo del genocidio e guadagno mille franchi al mese (5.000 lire). Lavo gli scheletri, tolgo le ragnatele. All’inizio, gli Hutu mi dicevano “Sei nostra sorella, smetti di occuparti di questi ossami, ti porteranno sfortuna. Non ti vergogni di occuparti ancora dei Tutsi?”. Ma dopo che ho sposato il fratello di mio marito, sono loro che si vergognano. Non osano più apostrofarmi a questo proposito.
Y.M. – Cosa fa tuo marito?
M.-J.N. – È un militare di basso rango.
Y.M. – Come si chiama tuo figlio?
M.-J.N. – Welcome Norbert. Ha sette anni.
Y.M. – Welcome? Che nome buffo.
Marie-Josée non risponde, sorride, pensierosa.
NIYONSABA Cassius
10 anni, superstite, Ntarama
Y.M. – Avevi cinque anni durante il genocidio. Ti ricordi? Cosa è successo? Dove abitavate?
Cassius – Ntarama.
Y.M. – Eri con i tuoi genitori?
Cassius – Si.
Y.M. – Come sono stati uccisi?
Cassius – Gli assassini sono entrati in parecchi nella chiesa dove ci eravamo rifugiati con centinaia di altre persone. C’erano degli uomini, delle donne, degli anziani e dei bambini. Urlavano, come se fossero ubriachi. Hanno colpito con dei manganelli. Noi svenivamo e i bambini ci finivano con il machete.
Y.M. – C’erano bambini della tua stessa età che uccidevano?
Cassius – Si. E anche più giovani. I genitori insegnavano loro ad uccidere gli anziani. Hanno tagliato le braccia e le gambe di mamma. Mi ha urlato di correre fuori perché lei stava per morire e non avrebbe potuto più proteggermi.
Y.M. – È un bambino che ti ha dato questo colpo di machete sulla testa?
Cassius – Non so …
Y.M. – Non hai mai dei problemi in seguito a questo colpo sulla testa?
Cassius – Si. Quando gioco molto al calcio, la notte muoio.
Y.M. – Bisogna farti curare. Chi può aiutarti?
Cassius – Mia cugina, la cui madre mi ha raccolto, ha appena finito i suoi studi di lettere classiche. Quando avrà un lavoro, mi fará curare.
giugno 11th, 2009
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
Chantal M.
37 anni, superstite, Gahembe (Bugesera)
C.M. – Credo che siamo arrivati dagli amici di mio padre il 12 aprile; loro hanno gridato tutti insieme “Dove andate, scarafaggi? Non vogliamo più vedervi”. Era da queste stesse persone che avevamo messo tutti i nostri oggetti di valore. “Persino Dio vi ha abbandonati. Il Dio dei Tutsi non esiste più. Ritornate da dove venite.” Ci prendevano in giro e ridevano della nostra disperazione. “A che ti servirebbe se io ti salvassi, mi ha detto uno di loro, tu saresti l’unica Tutsi al mondo. Perché tutti gli altri moriranno. Dimmi piuttosto che morte scegli, il manganello, la spada o le pallottole.” Ho chiesto solo dell’acqua per i miei bambini. Non ce ne hanno data e ci hanno scacciato. “Non avete più il diritto di bere la nostra acqua.” Siamo andati nelle piantagioni di sorgo fino al mattino. Ero con il più piccolo dei miei bambini quando abbiamo sentito degli assassini chiamarne altri: “Alzatevi, siamo in ritardo per il lavoro.”
Y.M. – Dove erano i vostri altri figli?
C.M. – Signora, se avete veramente vissuto il genocidio, vi ricordate che non si pensava nemmeno più che avevamo dei figli. Una volta arrivati nella boscaglia, i bambini si erano nascosti per conto loro. Ho sentito come sono stati uccisi. Era al loro grido, che chiedeva grazia agli autori del genocidio, che li ho riconosciuti. Ad un certo momento, ho desiderato la morte, ne avevo abbastanza. Non sapevo più dove andare. Sono rimasta nello stesso posto, sperando che mi trovassero per uccidermi. Non mi sono più spostata. A volte, gli assassini passavano vicino a me, sentivano il sudore e il sangue. Persino quelli che credevo essere i migliori hanno ucciso. Era scoraggiante ascoltare le loro conversazioni, non sospettavano nemmeno della mia presenza.
Si parla della fame durante il genocidio, ma nessuno aveva più fame, solo sete. Per caso, si arrivava ad una pozzanghera e si beveva senza farsi domande. Qualsiasi acqua era potabile. Il bimbo che mi restava mi stringeva quando avevamo paura. Avevo l’impressione che mi dicesse “coraggio, mamma”. Mangiavo i semi di sorgo, glieli risputavo in bocca e mi sorrideva. Abbiamo vissuto così durante il genocidio. Non sono mai stata nascosta da nessuno.
Y.M. – Che speranza avete ora.
C.M. – Sono sola. Mi affido a Dio.
Y.M. – E la giustizia?
C.M. – La giustizia non ci serve a granché.
NIKUZE Consolata
48 anni, coltivatrice, in prigione a Butare
C.N. – In nome di Dio onnipotente, vi dirò cosa ho visto. La sera del 6 aprile 1994, c’era un uomo che fuggiva non so da chi. Ha corso verso una piantagione di sorgo, ma è stato raggiunto in fretta dalle donne.
Y.M. – E dov’erano gli uomini del quartiere?
C.N. – Ti giuro che non c’erano uomini.
Y.M. – Si, ma dove erano andati?
C.N. – Non c’erano.
Y.M. – Dove erano andati?
C.N. – Mio marito lavorava come guardiano di notte da un Bianco. Non c’era. E gli altri erano liberi di andare dove volevano. Non potevo sapere. E ogni persona che arrivava picchiava il fuggitivo. Io, non volevo che si pensasse che l’avevo picchiato. Allora, sono andata via. E le donne hanno cominciato a urlare e a fischiare. “La paurosa se ne va. La paurosa. Se quest’uomo fosse arrivato a casa tua, avrebbe ucciso i tuoi bambini.” Sono tornata per supplicarle di non picchiare quest’uomo. “Smettete di picchiarlo!” Mi hanno risposto: “Tu, dunque ti rifiuti di picchiarlo?” In nome di Dio onnipotente, l’ho colpito allora con un rametto di paglia. All’improvviso, un giovane è arrivato di corsa. Aveva una piccola giacca dalla quale ha tirato fuori un machete minuscolo.
Y.M. – Signora, osate dire un machete “minuscolo”. Dove avete visto un machete “minuscolo” durante il genocidio?
C.N. – È vero, era un machete normale.
Y.M. – Tutti questi vocaboli mi disgustano.
C.N. – Davvero, mia cara, ti dico la verità.
Y.M. – Anch’io, sono qui per ascoltarvi. Ed è per questo che ora siete in prigione?
C.N. – Si.
Y.M. – Solo per questo?
C.N. – Si.
Y.M. – Allora penso che siate innocente. Poiché non avete né colpito né assassinato, non capisco perché siate in prigione. Infatti trovo che non abbiamo granché da dire. Perché siete innocente.
C.N. – Ma se l’ho colpito con un rametto di paglia!?
Ho interrotto brutalmente il colloquio. La menzogna era troppo evidente. La situazione mi era diventata insopportabile.
UWITONZE Françoise
12 anni [?], superstite, Kíbeho
Y.M. – Che malattia hai?
F.U. – I vermi.
Y.M. – Li hai presi al campo profughi in Burundi?
F.U. – No.
Y.M. – Dopo il genocidio?
F.U. – Si.
Y.M. – O forse li hai presi prima?
F.U. – Si. Quando ero piccola.
Y.M. – Prima del genocidio, eri magra come ora?
F.U. – No.
Y.M. – Da quando sei dimagrita così tanto?
F.U. – Adesso.
Y.M. – Mangi abbastanza?
F.U. – Si, mangio.
Y.M. – Io ho l’impressione che non è abbastanza. Ma dimmi, perché non mi guardi negli occhi? Eppure, puoi.
F.U. – …
Y.M. – E perché non rispondi?
F.U. – …
Y.M. – Ti hanno detto di non rispondermi?
F.U. – …
Y.M. – Eppure sai parlare…
F.U. – …
Y.M. – Ti hanno vietato di rispondermi?
F.U. – No.
Silenzio.
Questa bimba sembra avesse 12 anni al momento del genocidio. E nella sua testa, ha sempre 12 anni. Ho l’impressione che non si svilupperà se non cambierà ambiente.
giugno 6th, 2009
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
M. Vestina
33 anni, superstite, Gahembe
V.M. – Ho saputo della morte di Habyarimana solo la mattina del 7 aprile. Ho chiesto a una vicina hutu perché c’erano dei gruppuscoli nel centro del villaggio. Mi ha risposto con aggressività. “Smettila di fare finta. Sai bene che il presidente è stato assassinato.” Ho avuto veramente paura. Per me, era la fine. Ripensando al 1992 mi sono calmata, pensando che avrebbero assassinato solo dei ricchi e degli intellettuali. Un anziano hutu, una volta amico di mio padre, è venuto a prendere me e i bambini, poiché ero vedova. I figli di quel vecchio erano degli Interahamwe. Sua moglie, una Tutsi, fu la prima a cacciarmi. Esageravo la situazione, diceva. Suo marito ha dovuto impormi. Suo figlio, il più pericoloso di tutti, mi ha preso e spinta con un’ascia. Sono caduta sulla schiena. Ho visto l’ascia sollevata sopra di me, pronta a colpire. L’immagine mi terrorizza ancora oggi. È il fratello più piccolo, eppure anche lui miliziano, che mi ha salvato la vita. Mi ha tenuta in ostaggio per tutto il periodo. Mi violentava regolarmente. Gli lasciavo usare il mio corpo, a patto che non uccidesse, i miei figli.
Y.M. – Non hai paura dell’AIDS?
V.M. – L’AIDS? Si, ho paura, ma lo vedo come una fatalità. Recentemente ho notato una macchia sulla mia gamba. Ho pensato subito che era l’AIDS. Ma a che serve preoccuparsi? In ogni caso, se ho l’AIDS, non ho i mezzi per curarmi. Spero solo di non morire prima che i miei figli siano grandi.
Y.M. – Pensi di fare il test?
V.M. – A che serve?
Y.M. – E non gliene vuoi a quest’uomo che ti ha preso con la forza?
V.M. – Certo che gliene voglio. Testimonierò contro di lui. Se mi ha preso in ostaggio, non era per amore. Era il suo modo di uccidermi.
MUKASARAMBU Béata
25 anni, superstite, Nyamirambo
Béata è mia nipote, ha accompagnato i miei figli fino alla fossa dove sono stati assassinati.
B.M. – Ma zia, come sei ingenua! Tutti gli Hutu del quartiere avevano una sola idea in testa, uccidere. Non salvare. Il giorno dopo la morte dei tuoi figli, la moglie di Camille mi ha detto “c’è un uomo là nella strada e vuole vederti. è un miliziano che forse viene ad ucciderti. Si chiama Bizimungu.” Ma io, volevo solo una cosa: la morte. Pensare di poter morire era per me un piacere. Mi sono precipitata verso il miliziano. Ma ha esitato. “No, ha detto, di sicuro non sei tu la Béata che cerco. Quella che cerco è una Hutu, la sorella di Véné. Senza dubbio non sei tu. Torno a chiedere se sei tu.” È andato via ed è tornato dopo un quarto d’ora. E ha detto “Vieni, andiamo.” Siamo andati e abbiamo preso la direzione della fossa. Camminavo felice. Arrivati vicino alla fossa, Gaspard, il tuo vicino, ha gridato “Bizimungu, portami quella ragazza. Deve entrare nella mia casa.” Bizimungu rispose: “Conosci Ruvubu, il più grande miliziano? È lui che mi ha mandato a prenderla. Se viene a sapere che l’hai presa per te, sarà la guerra tra voi. A te la scelta.” In quel momento ho capito che mi cercavano per violentarmi. Zia, non voglio più continuare. Parleremo del resto più tardi. Lo sai, la mattina stessa, mi avevano messo una granata in bocca per obbligarmi a dire dove ti eri nascosta. Dopo quella granata, sono un po’ matta. A volte credo ancora che stia per esplodere. Mi succede di rimpiangere il fatto che non sia mai esplosa.
Anastasie I.
49 anni, superstite, Gahembe (Bugesera)
A.I. – Sulla collina dove eravamo fuggiti, gli uomini si battevano contro gli assassini e le donne e i bambini raccoglievano dei sassi per aiutarli. Nella mischia, un miliziano mi ha detto: “tu sei come una madre per me, vorrei poterti nascondere ma l’ultimo giorno dei Tutsi è venuto, devono tutti morire”. Mi ha tenuto tre giorni nel suo bananeto perché aveva paura di tenermi in casa; poi mi ha portata in mezzo a dei cadaveri sulla collina della resistenza. Là abbiamo passato la notte, mio figlio ed io. Gli assassini sono venuti, mi hanno colpito e hanno ucciso mio figlio. Uno di loro ha detto: “Questa vecchia ci ha curati tutti, se la uccidiamo, ci porterà male. Lasciamola in mezzo ai morti. morirà di fame; i cani e i nibbi finiranno il lavoro”. Se ne sono andati. Uno degli assassini è tornato: “vieni a casa mia, se mia moglie accetta, ti nascondo”. Sua moglie ha rifiutato, mi ha messa nella boscaglia e mi portava tutti i giorni dei semi di sorgo; poi, quando il FPR è arrivato, mi ha avvisato: “Anastasie, vengo a salutarti, non posso più proteggerti, non ti perdere d’animo e fai attenzione ai fuggiaschi, uccidono sul loro passaggio”.
Y.M. – Hai figli?
A.I. – Sì, tre. Quattro sono morti. La più grande è stata violentata e ha un bambino. Ho veramente molte ferite sul corpo, le mie cicatrici stanno scomparendo ma le ferite del cuore non si cicatrizzeranno mai.
Y.M. – Cosa pensi delle ONG e della Chiesa cattolica?
A.I. – C’è stato del disaccordo tra la Chiesa cattolica e il nostro governo. Quest’ultimo voleva che la Chiesa di Nyamata diventasse un monumento commemorativo del genocidio per lasciarci riposare gli scheletri. Per la Chiesa era un peccato. Sarebbe più grave tenere queste ossa nella chiesa piuttosto che aver lasciato uccidere là degli esseri umani? La Chiesa, non voglio più sentirne parlare … i religiosi bianchi sono stati rimpatriati, i religiosi ruandesi sono stati abbandonati. È successo lo stesso con le ONG.
Oggi, molti assassini si rifugiano nelle sette e fanno finta di avere la fede.
maggio 22nd, 2009
Testimonianze dal genocidio
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
H. Grégoire, detto Mandela (a causa di 25 anni di prigione),
54 anni, superstite, Nyamata
G.H. – A 18 anni, sono stato arrestato senza motivo il 22 dicembre 1963, in seguito all’attacco dei ribelli tutsi nel Bugesera, dove abitavo. Era domenica. Sono stato trasferito a Kigali negli uffici della polizia. Eravamo circa 850, rinchiusi in alcune stanze così piccole che non potevano nemmeno sdraiarci. Juvénal Habyarimana è arrivato con una lista di ventitré persone. Queste persone sono state torturate tutta la notte e uccise all’alba. Non abbiamo avuto niente da mangiare fino a Natale, solo una volta una specie di fou-fou che assomigliava a una poltiglia, nella quale i militari buttavano la cenere delle loro sigarette e tanto calda da poterla prendere solo nelle nostre scarpe. Il giorno di Natale, siamo stati condotti alla prigione 1930 dove siamo rimasti fino a marzo. Molti sono stati liberati, ma 35, tra cui io, sono stati condannati a morte. Ma Monsignor Perraudin, che era venuto ad amministrarci l’estrema unzione, è intervenuto in nostro favore presso il presidente Kayibanda, il suo migliore amico. Per una volta che Perraudin faceva una buona azione! In marzo 1965, dopo molte procedure di appello tutte senza successo, siamo stati trasferiti alla prigione di Ruhengeri dove sono rimasto fino al 1973, sempre senza sapere perché. Al momento del colpo di stato di Habyarimana, siamo stati trasferiti nella prigione di Gitarama, dove le nostre condizioni di detenzione erano terribili: celle inondate, pagliericci marci. Passavamo notti e giorni interi appollaiati sui nostri lettini di ferro. Un giorno, hanno fatto l’errore di aprire le celle. Ci siamo rivoltati e abbiamo rifiutato di ritornarci. Siamo stati gettati in una cantina. La nostra pena di morte è stata infine tramutata in ergastolo. E nel 1985, siamo stati rimessi in libertà e condannati all’obbligo di soggiorno nel nostro Bugesera natale. Avevo 40 anni, avevo passato tutta la mia gioventù in prigione. E nel 1994, siamo stati il bersaglio del genocidio. Credo di essere il solo sopravvissuto dei 35 che erano con me.
Y.M. – Hai una moglie a casa?
G.H. – Una moglie? Cosa offrirei a una moglie? Quando non si ha avuto gioventù, non si ha felicità da offrire. E poi, far crescere dei bambini sotto la continua minaccia di diventare orfani prima o poi?
Marc N.
54 anni, guardiano del sito di Ntarama, militare hutu che ha protetto dei Tutsi
M.N. – Dopo la caduta dell’aereo presidenziale, ci sono state delle voci secondo le quali erano stati i Tutsi ad abbatterlo. I miei vicini tutsi si sono rifugiati a casa mia, pensando che avessi un’arma e che avrei potuto proteggerli. Ma io non avevo armi perché mi avevano appena comunicato il mio pensionamento, con il pretesto che avevo rifiutato il genocidio.
Y.M. – Il genocidio era stato pianificato anche all’interno dell’esercito?
M.N. – Certo! Nessun ufficiale dei FAR può dire di non essere stato informato della pianificazione del genocidio.
Y.M. – Non hai avuto paura di proteggere delle persone?
M.N. – Paura? Una fifa nera, sì! Quando hanno attaccato casa mia, ho fatto uscire tutti, erano forse una ventina; ho tenuto solo le donne anziane e i bambini. Davanti ai miliziani ho giurato sotto la foto del presidente che non potevo nascondere dei nemici. È così che tutti quelli che erano a casa mia si sono salvati.
Y.M. – Cosa pensi dell’ONU?
M N. – L’ONU ci ha abbandonati. Ho visto qualcosa di sconcertante tra ottobre e novembre 1994. Dei Caschi blu sono venuti in elicottero a prendere dei teschi al sito di Ntarama. Senza dubbio con l’obiettivo di cancellare le tracce del genocidio. Ho immediatamente informato le autorità locali.
Claire K.
22 anni, superstite, Kicukiro (Kigali)
Siamo stati spinti con la forza sulla collina di Nyanza dove siamo stati aggrediti per ore, con delle granate prima e poi con dei machete e delle pistole. Ho visto saltare il cervello di una bimba al mio fianco … Ero coperta di ferite e avevo un coltello nella gamba. Facevo la morta mentre i miliziani finivano le persone. Ho sentito la mia sorellina che mi chiamava “Claire, Claire, non mi abbandonare, sono ancora viva”. I miliziani l’hanno portata via, non l’ho mai più rivista. Un assassino si è piegato su di me dicendo: “Penso che questa sia ancora viva. Mi ha calpestata con le sue scarpe chiodate. Un altro l’ha interrotto dicendo: “Imbecille, è così che controlli che siano morti? Guarda …” E all’improvviso ho sentito un grosso peso sulla testa e sono svenuta. Quando mi sono svegliata, un uomo stava in piedi di fianco a me e cercava di riconoscermi”. Mi ha chiesto cosa faceva mio padre. “Mio padre? Lavora al campo militare. – Allora, sei una dei nostri. Ti salverò.” Altre, donne sono state salvate come me; ci hanno riunito e sono stata affidata ad un militare. Squadrandomi, mi ha detto: “Hai l’età di mia figlia. Nonostante tu sia Tutsi, perché‚ si vede, non ho la forza di ucciderti‚ di violentarti. Non voglio il tuo sangue sulle mie mani. Senza dubbio sarai uccisa, ma non da me”. E dicendo queste cose, se ne è andato.
Una donna anziana mi ha dato un perizoma e sono andata a nascondermi in un piccolo chiosco dove c’era un rubinetto pubblico. Quando il FPR è arrivato, un militare ci ha portato dell’acqua calda per lavarci. Due minuti dopo, mentre si girava, è morto sotto i nostri occhi colpito da una pallottola in pieno petto.
Oggi, non ne posso più di incontrare assassini. Ne ho abbastanza di vivere nella paura. Ho voglia di lasciare il Ruanda, questa terra dove gli assassini corrono liberamente.
maggio 17th, 2009
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
NTEGEYIMANA Evariste
15 anni, in prigione a Butare
E.N. – Un gruppo di assassini sono venuti a prendermi a casa. Mi hanno detto di andare con loro. Ho rifiutato. Ma hanno minacciato di uccidere la mia mamma, che è Tutsi, se non andavo. Allora, ho avuto paura e sono andato con loro. Mi hanno fatto vedere tre bambini da uccidere. Ho rifiutato, ma un vicino mi ha obbligato a prendere un machete. Ho ancora rifiutato, ma mi hanno schiaffeggiato. Allora l’ho preso. Ho ucciso i bambini, non avevo scelta …
Y.M. – Quale è stata la reazione di tua madre quando l’ha saputo?
E.N. – Mi ha picchiato…
Y.M. – Quei bambini che hai ucciso, li conoscevi?
E.N. – Si, erano dei vicini. Mangiavano spesso da noi e io da loro.
Y.M. – E ora, come sono le relazioni?
E.N. – È la loro mamma che mi ha fatto mettere in prigione. L’amicizia tra le due famiglie è rotta…
Y.M. – Quale è la decisione del tribunale, ora?
E.N. – Che devo andare in rieducazione.
Y.M. – E l’uomo che ti ha trascinato, che relazioni ci sono tra voi?
E.N. – Faccio parte dei testimoni contro di lui, perché lui ha ucciso anche me. Non sono più un bambino, sono un assassino…
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maggio 7th, 2009
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
M. Emmanuel, 40 anni, superstite di Murambi, diventato guardiano del luogo
E.M. – L’8 aprile siamo fuggiti verso la parrocchia di Gikongoro. Monsignor Misago collaborava con il prefetto per raggrupparci nei luoghi dove gli Interahamwe avrebbero potuto attaccarci meglio. E infatti, non ci hanno dato tregua durante tutto il genocidio. La guardia presidenziale e l’esercito facevano delle specie di rastrellamenti con i mitra. Dopo passavano i miliziani per finire i feriti a colpi di machete. Era organizzato molto bene. Noi ci difendevamo come potevamo, con dei sassi. Ma ci sono stati molti morti fino a luglio. Se ne contano circa 27.000, Ma credo ce ne siano stati di più.
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aprile 27th, 2009
Testimonianze dal genocidio
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
Adeline U.
22 anni, superstite, Kigali
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aprile 20th, 2009
KANDERA Adèle
49 anni, superstite, Nyamata
A.K. – Ci siamo nascosti nelle paludi. Una sera, gli assassini ci hanno sorpresi. Ho dato loro dei soldi perché non ci uccidessero. E anche una radio. Hanno preso tutto ridacchiando. Hanno anche preso tutti i miei vestiti e persino la mia cintura. Solo allora hanno cominciato il lavoro. Hanno cominciato dai miei bambini. Ho visto cadere le gambe del primo, e poi la sua testa. Ho incominciato a gridare, allora sono venuti verso di me. Mi hanno tagliata a pezzi e sono svenuta. La mia più grande sfortuna fu di svegliarmi tra i cadaveri dei miei. Avevo addirittura il cadavere di uno dei miei figli sopra di me. Non potevo muovermi. Uno dei miei figli non era morto. Mi chiamava in continuazione. “Mamma, svegliati. Sono ancora in vita.” L’avevano tagliata dappertutto. Ho guardato tutto intorno a me, ho guardato i bambini, ho guardato mia madre. Ho detto a mia figlia sopravvissuta “dammi da bere”, anche se non poteva trovare acqua.
Siamo restate cosi per notti e giorni, paralizzate. Delle bestie venivano a mangiare i cadaveri dei miei figli, e non avevo la forza di cacciarli. Un mattino, credevo di morire, perché dei bacherozzi si muovevano nelle mie piaghe. Ho domandato a mia figlia di andare a cercare da mangiare, ma non era veramente per mangiare, era per allontanarla da me e suicidarmi senza che lei mi vedesse. Appena partita, ho messo il mio indice nella ferita che avevo sul collo e ho tirato per romperla completamente. Ma non c’era più forza nelle mie mani, non sono riuscita a finirmi. Invece di morire, il giorno dopo stavo cosi male che non potevo nemmeno bere l’acqua. Quando mia figlia è tornata, le ho spiegato il mio gesto e come non aveva funzionato… Quando il FPR ha preso la regione, non ce ne siamo rese conto. Solo 15 giorni dopo qualcuno è venuto a salvarci.
Oggi Adèle è cosi povera che non può nemmeno comprarsi le stampelle di cui ha ormai bisogno per muoversi.
Alvera M.
26 anni, superstite, Nyamirambo
A.M. – Al momento dell’assassinio del presidente, ero da mio cugino a Nyamirambo. La mattina, è arrivato un veicolo di Interahamwe. A bordo c’era un bambino che faceva vedere ai miliziani le case dei Tutsi. Ero nascosta a casa di un cuoco vicino, nei bagni dei domestici. Gli Interahamwe sono venuti a frugare parecchie volte senza trovarmi. In quel periodo, gli Hutu del sud affiliati al PSD (partito d’opposizione) non partecipavano ancora ai massacri. Erano una ventina, con dei machete e delle lance. Mi hanno trovato un altro nascondiglio. Avevo paura ma ho accettato.
Y.M. – Come sei andata a Butare?
A.M. – Era il 23 aprile. Un militare dei FAR, amico di mio cugino, è venuto da me e mi ha detto che andava a Butare. L’ho supplicato di portarmi con lui e mi ha detto “con la tua faccia, non potrei mai farti passare.” L’ho supplicato e ha detto “porto qualcuno che mi ha dato dei soldi, non voglio creargli dei problemi.” Alla fine ha ceduto. Ci sono state delle difficoltà ad attraversare Nyabarongo. Ha dovuto pagare. Arrivati alla periferia di Butare, alla stradina che portava a casa dei miei genitori, mi ha fatta scendere e ho fatto 8 km a piedi. A Butare, in alcuni comuni avevano già incominciato ad uccidere mentre in altri, come il mio, non ancora. Hanno incominciato la notte dopo il mio arrivo, da mio padre. I miei fratelli sono stati nascosti da un vicino che è poi andato a denunciarli. La casa è stata incendiata, loro sono bruciati vivi. Una settimana dopo, hanno assassinato mia madre. Quanto a me, poiché un miliziano venuto da Kigali diceva che ero morta, hanno smesso di cercarmi. Sono rimasta nelle piantagioni di sorgo dove ho assistito all’uccisione dei miei nipotini e nipotine; gli assassini li hanno gettati nelle latrine. Alla fine, anche mia sorella è stata uccisa. E io, sono stata salvata dal FPR.
Y.M. – Di cosa vivi oggi?
A.M. – Dopo il genocidio, ho cercato i beni dei miei fratelli di Kigali. Li ho ritrovati. Li ho venduti.
Y.M. – E ora?
A.M. – Ora vivo per l’orfana di mio fratello, l’unico membro della famiglia che mi è rimasto. è lei che mi dà la forza di vivere. Se ce ne fosse bisogno, sarei disposta a prostituirmi per pagare i suoi studi. Spero che riesca nella vita.
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
aprile 5th, 2009