Bisesero è una regione montuosa situata a circa 31 km dalla città di Kibuye, capoluogo dell’omonima prefettura, situata in riva al Lago Kivu. Storicamente la maggior parte della gente del Bisesero erano Tutsi, la cui attività principale era la pastorizia. Erano chiamati Abasesero, un nome da cui la provincia ha derivato il suo nome. Durante il genocidio del 1994, la gente nelle altre prefetture era stata decimata a causa del suo numero esiguo e dell’uso di armi tradizionali a mano. Invece i Tutsi che vivevano nel Bisesero e nelle regioni circostanti si riunirono su una collina per resistere agli assassini – che erano i loro vicini e altri Hutu dalle aree circostanti. Ecco perché questa collina adesso è chiamata la “Collina della Resistenza”. Essi per alcuni giorni ebbero successo perché scelsero la cima di una collina dove c’erano molte rocce che tiravano agli attaccanti che avanzavano armati di picche e machete. Dopo molti giorni di resistenza, i rinforzi Hutu della Guardia Repubblicana di Kigalie i miliziani Interahamwe organizzarono un serio attacco contro i Tutsi rifugiatisi sulla collina. Questi nuovi attaccanti venivano armati con moderne e potenti armi. Contro questo nuovo assalto, la gente di Bisesero non poté resistere a lungo e perciò soccombettero al genocidio. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti, soltanto pochi Tutsi che vivevano nel Bisesero sfuggirono. Durante questo attacco furioso quasi 50.000 persone della regione vennero massacrate. Nel 1996 subito dopo il genocidio, diversi sopravvissuti si riunirono coi membri dell’associazione di sopravvissuti “Kibuye Solidarity” ed ebbero l’idea di radunare in un unico posto i resti di tutte le vittime sparsi in differenti colline e valli, al fine di seppellirli con dignità. Così, scelsero Bisesero “la Collina della Resistenza”. Oggi, un grande numero di quei resti è stato sepolto, ma un numero ridotto è stato conservato per essere sistemato nel memoriale dove saranno mostrati per preservare il ricordo di ciò che successe a Bisesero. Questo memoriale è composto da nove piccoli edifici che rappresentano i nove comuni che costituivano la provincia di Kibuye. Dal 1998 con le cerimonie ufficiali di sepoltura in collaborazione con INMR, il ministero della gioventù, dello sport e della cultura ha iniziato il trattamento delle ossa umane e dei teschi, prima di esporli nelle nove case. Al momento, queste case non hanno l’equipaggiamento per conservare i resti umani e gli altri oggetti. Qualche testimonianza orale di ciò che accadde a Bisesero è stata registrata da African Rights.
Un anno e mezzo prima del genocidio, Jean Carbonare dell’associazione Survive rilascia al TG francese delle ore venti questa toccante testimonianza sulle persecuzioni contro la minoranza Tutsi. E’ il 24 gennaio 1993: un anno e mezzo prima del genocidio!
1. Ogni hutu deve sapere che una donna tutsi, ovunque lei sia, lavora nell’interesse del suo gruppo etnico tutsi. Di conseguenza noi consideriamo traditore qualsiasi hutu che:
- sposi una donna tutsi;
- si leghi d’amicizia con una donna tutsi;
- impieghi una donna tutsi come segretaria o come concubina.
2. Ogni hutu deve sapere che le nostre ragazze hutu sono migliori e più coscienziose nel loro ruolo di donne, mogli, madri. Non sono forse belle, brave segretarie e più oneste?
3. Donne hutu, siate vigili e cercate di ricondurre a ragione mariti, fratelli e figli.
4. Ogni hutu deve sapere che ogni tutsi è disonesto in affari. Il suo unico obbiettivo è la superiorità del suo gruppo etnico. Di conseguenza è traditore qualsiasi hutu che faccia le cose seguenti:
- fare affari con un tutsi;
- investire il proprio denaro o il denaro governativo in un’impresa tutsi;
- prestare o prendere in prestito denaro da un tutsi;
- rendere servizio a un tutsi a livello di affari (fargli ottenere licenze di importazione, crediti bancari, agevolarlo nella costruzione di edifici, di mercati pubblici …)
5. Tutte le posizioni strategiche, siano esse politiche, amministrative, economiche, militari o di sicurezza, devono essere affidate a hutu.
6. Il settore dell’educazione (allievi, studenti, insegnanti) devono essere composti in maggioranza da hutu.
7. Le forze armate ruandesi devono essere esclusivamente hutu. L’esperienza della guerra del 1990 ci ha dato una lezione. Nessun membro dell’esercito deve sposare una tutsi.
8. Gli hutu devono smettere di avere pietà dei tutsi.
9. Gli hutu, dovunque siano, devono dare prova di unità e solidarietà e devono sentirsi direttamente toccati dalla sorte dei fratelli hutu
- Gli hutu dentro e fuori il Rwanda devono essere continuamente alla ricerca di amici e alleati in favore della causa hutu, a cominciare dai loro fratelli bantu.
- Devono lottare costantemente contro la propaganda tutsi.
- Gli hutu devono essere fermi e vigili nei confronti dei nemici comuni, i tutsi.
10. La rivoluzione sociale del 1959, il referendum del 1961 e l’ideologia hutu devono essere insegnati a tutti gli hutu a tutti i livelli. Ognuno deve diffondere questa ideologia. Ogni hutu che perseguiti il suo fratello hutu per avere letto, trasmesso o insegnato questa ideologia, è un traditore.
(Apparso sul giornale degli estremisti pro-hutu, “Kangura”, il 10 dicembre 1990)
Il Rwanda ha conosciuto cicli di violenza a carattere etnico fin dal 1959 quando i tutsi hanno cominciato ad essere uccisi o forzati a scegliere l’esilio a causa dei miliziani del MDR-PARMEHUTU composto per lo piu’ da elementi estremisti Hutu sostenuti dall’amministrazione coloniale e dalla Chiesa cattolica. Già a quell’epoca le donne costituivano un gruppo particolarmente colpito dalle milizie del partito MDR-PARMEHUTU che aveva da poco preso il potere per mezzo di cio’ che essi chiamavano una rivoluzione sociale ma che in realta’ non era altro che una caccia ai Tutsi.
Mentre erano intenti ad uccidere persone, bruciare case, spogliare dei beni e mangiare le vacche dei Tutsi, essi scandivano slogan che incitavano alla violenza, del tipo: “Inka zabo tuzazirya, abagore n’abakobwa babo tuzabasambanya” (Noi mangeremo le loro vacche, noi violenteremo le loro donne e le loro figlie).
E’ importante notare che le vacche in Rwanda costituivano il simbolo della ricchezza ed innalzavano i loro proprietari ad un rango sociale elevato. Esse erano dunque ragione di fierezza per i loro allevatori e oggetto di invidia per chi non le possedava. Per meglio ferire i Tutsi nel loro amor proprio, si dovevano colpire le loro vacche ed in fine per annientarli definitivamente si dovevano violentare le loro donne e le loro figlie sapendo che lo stupro è il crimine più degradante e più umiliante di cui una donna e la sua famiglia possano essere vittime. La vergogna e l’umiliazione causate dallo stupro vanno al di là della vittima diretta e coinvolgono anche la sua famiglia, in particolare i parenti, il marito ed i suoi figli.
Lo stupro utilizzato come arma del genocidio.
Nell’Aprile del 1994, il popolo ruandese, commettendo il Genocidio dei Tutsi che causò la perdita di un milione di vite in cento giorni, ha scritto la pagina più oscura della sua storia. Nel corso del genocidio, lo stupro è stato utilizzato come una delle armi più terribili e più effcicaci. Per questo la donna Tutsi è stata un vero campo di battaglia a seguito di violenze sistematiche di massa.
I pianificatori del genocidio hanno identificato lo stupro come una strategia infallibile per sterminare i Tutsi, obiettivo totalmente riuscito, poiché le vittime di questi stupri e violenze sessuali sono state in gran parte contaminate dall’HIV/AIDS ed altre violentate in presenza dei loro figli, non hanno potuto sopportare l’umiliazione e si sono suicidate. Essi hanno perciò chiesto alla popolazione Hutu non solo di uccidere tutti i Tutsi ma anche di violentare sistematicamente tutte le donne ed i bambini. Per tale motivo sono state violentate anche donne con più di sessanta anni così come bambini sotto i 10 anni. L’esempio più lampante è quello del tristemente celebre Jean Paul AKAYEZU, allora Sindaco del comune di Taba nella Prefettura di Gitarama (oggi divenuto Distretto di Kamonyi nella Provincia del Sud) il quale diceva ai miliziani INTERAHAMWE (Fazione armata del MRND, partito al potere durante il genocidio) che si trattava per loro dell’unica occasione per andare a letto con una donna Tutsi. Ad essi rivolgeva proposte del tipo: «Voi avete a vostra disposizione delle donne Tutsi, se voi non approfittate dell’occasione, non venitemi più a domandare a che cosa assomigli il loro sesso ». O ancora: «Voi non ignorate quanto queste donne siano fiere ed arroganti, voi sapete come esse vi abbiano sempre disdegnato, punitele andando a letto con loro »
Ricordiamo che Akayesu è stata la prima persona ad essere stata condannata dal Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda «TPIR » per i crimini di stupro e violenze sessuali.
In aggiunta agli stupri, diverse altre forme di violenza sessuale come torture e mutilazioni sessuali sono state perpetrate sulle vittime. L’orrore indicibile ha avuto luogo quando essi hanno obbligato dei giovani a violentare le proprie madri, i padri a violentare le proprie figlie e quando hanno tagliato i clitoridi delle donne. Tagliare il clitoride ad una donna ruandese significa colpire la sua dignità umana e ferirla profondamente nella sua autostima. Non c’è da meravigliarsi che alcune di loro abbiano deciso di porre fine alla loro vita!!!
Tutte queste violenze sono state commesse in publico con la benedizione e la partecipazione di alcuni elementi dell’amministrazione politica, dell’esercito ed anche di leader religiosi.
Questi atti ignobili venivano acompagnati da parole oscene che avevano come fine non solo quello di umiliare e di ferire la vittima, ma anche di colpire tutta la sua famiglia.
Questi atti ignobili hanno avuto conseguenze molto gravi di ordine fisico, psicologico e socio economico. Senza parlare delll’HIV/AIDS, le cui vittime oggi sono per la maggior parte morte.
Il 16 aprile 1994 65.000 Tutsi cercarono rifugio nella scuola tecnica di Murambi confidando invano sulla protezione dei militari francesi. Dopo aver cercato di resistere alcuni giorni difendendosi con pietre e laterizi, le milizie Hutu ebbero la meglio. La moglie e i cinque figli di Emmanuel Murangira furono massacrati, assieme ad altre 40.000 persone. Lui, colpito alla testa da un proiettile, si salvò fingendosi morto e nascondendosi tra i cadaveri. E’ un sopravvissuto. Oggi è il solitario custode del Murambi Genocide Memorial. Il Blog di Beppe Grillolo ha raggiunto via Skype per raccogliere la sua testimonianza nel 15esimo anniversario della strage.
In occasione del XV anniversario del genocidio del Rwanda pubblichiamo il video con i sottotitoli in italiano che racconta la storia di uno dei massacri più efferati della storia contemporanea (Fonte).
Mi chiamo Emmanuel Murangira. Sono nato qui a Gikongoro nel 1957, nel distretto di Nyamigabe. La mia famiglia è morta qui nel sito del Murambi memorial – mia moglie, i miei cinque bambini, due maschi e tre femmine – sono tutti morti qui. Il più grande aveva solo 13 anni. Non riesco a parlare di loro. Prima della guerra ero un agricoltore e successivamente ho avuto un lavoro all’ufficio provinciale. Ma fui licenziato dal Sindaco – per via del mio gruppo etnico. Sono ritornato a coltivare, ma non passò molto tempo che la guerra ebbe inizio e cominciarono ad uccidere la gente.
Nyamata e l’area circostante sono classificate come una delle regioni maggiormente devastate dal genocidio del 1994. Oltre alle 24.000 persone uccise laggiù, il motivo di questo può essere ricercato nella storia della regione di Bugesera. All’inizio degli anni ’60, molti Tutsi provenienti da differenti aree del Ruanda furono costretti a lasciare le loro case e ad andare a vivere in questa regione che era considerata molto insalubre a quel tempo. Per questo motivo, Bugesera divenne una regione la cui popolazione era prevalentemente Tutsi. Nel 1992, molti Tutsi furono assassinati a Bugesera. Quando cominciò il genocidio nell’aprile del 1994 molte persone da Nyamata e dalle aree circostanti si riunirono nella città di Nyamata. La Chiesa Cattolica e le case nelle vicinanze appartenenti ai preti e alle suore divennero rifugi per le persone terrorizzate che scapparono laggiù sperando di sfuggire alla morte. Usarono la chiesa come rifugio, pensando che la milizia non sarebbe entrata per ucciderli, in un posto comunemente considerato un santuario. Invece, in base alle testimonianze rese dai sopravvissuti, il 10 aprile 1994 circa 10.000 persone furono uccise dentro e intorno all’area della Chiesa Cattolica.
Quando la vidi per la prima volta quasi tre anni fa mi sembrò più un fantasma che un essere umano, un’apparizione scheletrica distesa su un letto da campo in un paese dove i cadaveri ingombravano strade e campi.
Capire e fare capire cosa è accaduto nel 1994 in Rwanda è fondamentale per comprenderel’attuale emergenza dell’etica e della giustizia a livello globale, e tentare di cambiare noi stessi ed il mondo in cui viviamo.
Dopo la caduta del muro di Berlino, questo mondo ha conosciuto anni di miope, crescente baldoria, di politiche economiche cannibalesche, di legge del più forte, di disprezzo della persona umana e dell’ambiente in nome del mercato, di erosione della democrazia e dello stato di diritto in nome degli affari, di conflitti d’interesse di ogni tipo, di saccheggio globale e speculazioni senza scrupoli e senza sanzione ai danni dei più deboli.
Tra il 6 aprile ed il 18 luglio 1994, si é compiuto in Ruanda uno dei piú mostruosi crimini della storia dell’umanitá: il genocidio dei Tutsi (accompagnato dai massacri degli Hutu moderati) commesso dagli estremisti dell’Hutu Power. Almeno ottocentomila persone (un milione secondo alcune stime) furono massacrate nello spazio di cento giorni, ad un ritmo cinque volte superiore a quello del genocidio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, con modalitá particolarmente barbare ed atroci.
Il genocidio dei Tutsi, che affonda le sue radici nei gravissimi, criminali errori commessi dal colonialismo belga (colpevole di avere artificialmente creato il divisionismo etnico nella societá ruandese), fu pianificato, organizzato, istigato e compiuto, a diversi livelli di responsabilitá, dal governo ruandese, dall’esercito regolare ruandese, da milizie estremiste quali i famigerati Interahamwe e Inpuzamugambi, e da milioni di ruandesi, uomini e donne, istigati dal nazismo tropicale dell’Hutu Power.
Le Nazioni Unite (benchè fossero presenti sul campo con una missione di pace) e le potenze internazionali (in primis la Francia, alleata del governo ruandese dell’epoca, e gli Stati Uniti), informate con largo anticipo di quanto si stava preparando, nulla fecero per evitare o almeno bloccare il genocidio dei Tutsi.
Mentre si commettevano massacri su larghissima scala ed efferratezze innominabili, preferirono ignorare gli obblighi non solo morali, ma anche legali, derivanti dalla Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. A lungo rifiutando persino che si pronunciasse la parola “genocidio” (per non doverne trarre le conseguenze legali previste dalla Convenzione) mentre i massacratori proseguivano il “lavoro”, la comunitá internazionale non intervenne a porre un fine al genocidio e a difendere le vittime, ma lasció invece che fossero atrocemente trucidate.
La Radio Televisione delle Mille Colline incitava la popolazione a “tagliare tutti gli alberi alti”, ricordando che “le fosse” erano “solo a metá piene”, e intanto i mass-media internazionali erano incapaci o addirittura riluttanti a spiegare quanto realmente succedeva in quell piccolo (e fino ad allora pressoché sconosciuto) paese africano.
Non svolsero affatto il loro dovere di divulgare un’informazione chiara e veritiera all’opinione pubblica internazionale, peraltro già distratta da altri eventi internazionali, quali i campionati del mondo di calcio negli Stati Uniti, la fine dell’era dell’apartheid in Sudafrica, o il prolungarsi del conflitto nell’Ex-Yugoslavia. Non spiegarono che era in corso un genocidio lungamente annunciato, e diffusero invece la vaga e menzognera idea che quanto stava accadendo in Ruanda era uno scoppio irrazionale ed improvviso di violenza, un tipico “conflitto interetnico”, una questione “tra selvaggi africani” per la quale c’e’ ben poco da fare, nella quale non vale la pena interferire.
Paradossalmente, ulteriore imperdonabile offesa alle vittime del genocidio, furono questi stessi media occidentali che avevano ignorato lo sterminio dei Tutsi a suscitare poi l’ondata di commozione pubblica internazionale intorno alla sorte dei milioni di “profughi” hutu colpiti da un’epidemia di colera nei campi infernali di Goma e Bukavu, nell’allora Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo!
Tuttavia non di classici profughi si trattava, ma in larga misura di assassini fuggitivi, poichè in tali campi spadroneggiavano, numerosissimi, gli autori del genocidio, i promotori, i pianificatori, i miliziani e centinaia di migliaia di ordinari assassini, tenendo in ostaggio il resto della massa di oltre due milioni di Hutu che si era riversata in Congo ed altri paesi vicini alla fine del genocidio, mentre l’esercito francese ne copriva la ritirata strategica.
Questa fuga di massa senza precedenti nella storia scaturiva dall’avanzata delle truppe vittoriose del Fronte Patriottico Ruandese, il movimento di opposizione armata predominatemente Tutsi, che aveva appena vinto la guerra civile e progressivamente messo fine al genocidio, e che si apprestava a prendere il controllo politico e amministrativo del paese. Con la generosa e quantomeno acritica assistenza della comunitá umanitaria internazionale, questi fuggitivi, guidati dalle gerarchie genocidarie ed inquadrati dalle milizie, rimasero per due anni in campi vicini alle cittá di Goma e Bukavu, sulla frontiera stessa tra Zaire e Ruanda, da lì proseguendo le azioni militari e gli atti di genocidio nel vicino Ruanda.
Nel 1996, questi campi furono chiusi con la forza dall’esercito ribelle congolese guidato da Laurent Désiré Kabila, la cui inesorabile avanzata, sostenuta dall’Esercito Patriottico Ruandese e dai guerriglieri Banyamulenge (Tutsi congolesi), finí poi per rovesciare il trentennale regime del giurassico, cleptocratico despota Joseph Désiré Mobutu Sese Seko, fondando l’attuale Repubblica Democratica del Congo (RDC).
Numerosi Hutu perirono nei combattimenti; una parte si disperse per l’Africa e per il mondo; molti miliziani Interahamwe rimasero nell’est della RDC, dove hano imperversato fino ad oggi taglieggiando le popolazioni civili, stuprando donne e bambini senza pietà, e costituendo la causa principale del perpetuarsi fino ad oggi del cruentissimo conflitto congolese, che ha portato alla destabilizzazione regionale, e allo sfruttamento illecito delle ricchezze minerali della RDC da parte di numerosi attori congolesi, regionali ed internazionali.
Una larga maggioranza di Hutu fece comunque ritorno in un paese devastato e coperto di cadaveri, dove rimanevano gli Hutu che non erano fuggiti ed i pochissimi Tutsi dell’interno sopravvissuti. Contemporaneamente fecero ritorno, dopo la fine del genocidio, centinaia di migliaia di Tutsi della diaspora, che mettevano fine ad un esilio trentennale cominciato con i primi pogrom anti-Tutsi del 1959 che avevano segnato l’inizio del dominio Hutu in Ruanda.
Il nuovo governo ruandese, guidato dall’Fronte Patriottico Ruandese dell’attuale presidente Paul Kagame, si confrontava con il compito dantesco di risollevare dalle ceneri del genocidio un paese devastato, insanguinato e spopolato. Tra i molteplici, simultanei sforzi prioritari necessari in un tale contesto post-apocalittico, da cui si ripartiva da molto sotto zero, si impose con grande forza anche quello della giustizia del genocidio.
Tuttavia, come rendere tale giustizia, quando gli avvocati, i giudici, i funzionari, o erano stati massacrati, o erano divenuti massacratori, o si trovavano in fuga, o dispersi? Si dovevano giudicare oltrei centomila reclusi in attesa di giudizio nelle carceri piú sovraffollate del pianeta, e chiarire le responsabilità di una massa di almeno due milioni di persone in libertá o in fuga, che avrebbero partecipato a vari livelli al genocidio.
Questo immane processo é tuttora in corso, ed ha assunto forme molto varie e particolari. Esiste in Ruanda un contenzioso moderno nazionale specializzato nella giustizia del genocidio (ovvero gestito dal sistema giudiziario attraverso sezioni specializzate dei tribunali), che ha giudicato più di diecimila persone; e per affrontare l’emergenza di giudicare una massa sterminata di ordinari assassini, è stato allestito un particolare processo di giustizia derivato dal modello di giustizia tradizionale ruandese (chiamato “gacaca”) che ha funzioni non solo giudiziarie in senso stretto, ma di catarsi e, nella misura del possibile, di riconciliazione nazionale, per quanto ci si possa riconciliare dopo un genocidio…
Le Nazioni Unite, colpevoli di inazione nel 1994, hanno lanciato un anno dopo un (costoso e molto criticato) processo di giustizia internazionale ad hoc (il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, sito a Arusha in Tanzania); e si sono osservati vari esempi di applicazione del principio di competenza universale per crimini contro l’umanitá che hanno portato alla celebrazione di processi a ruandesi accusati del genocidio in Belgio, Canada, Svizzera…
Tutti questi processi di giustizia, nonché la ricostruzione storica degli eventi da parte di giornalisti, studiosi, testimoni (quali in particolare Philippe Gourevitch, Colette Braekman, il generale Romeo Dallaire, la sopravvissuta Yolande Mukagasana) ed organizzazioni (quali in particolare la Federazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo, Human Rights Watch, African Rights ed altri), nonchè il riconoscimento ufficiale del genocidio da parte dell’ONU, hanno dimostrato senza equivoco nè dubbio la realtá del genocidio dei Tutsi e le responsabilitá di un grande numero di individui appartenenti all’Hutu Power. Vari studi hanno anche sottolineato le responsabilitá delle chiese (ed in particolare la Chiesa Cattolica ruandese) e di certi paesi (soprattutto la Francia), coinvolti a vario titolo nel genocidio ruandese.
Tuttavia, questa veritá, a differenza della veritá sul genocidio degli ebrei, a tutt’oggi non é di dominio pubblico, non fa parte della cultura e della coscienza universali, ma rimane il patrimonio dei cosiddetti “africanisti”, l’appannaggio di “specialisti”: come dire che i crimini che altrove offendono l’umanitá nel suo insieme, in Africa, parafrasando Mitterrand, “non sono troppo importanti” .
Quindici anni dopo, è giunto il momento di rendere infine giustizia alle vittime del genocidio ruandese, è giunto il momento di rendere giustizia all’Africa, e affermare il principio che ogni genocidio, anche se le vittime sono Africane, offende l’umanità nel suo insieme e non può essere ignorato. Se è troppo tardi per salvare il milione di uomini, donne e bambini che sono stati violati, torturati e sterminati dalla notte tra il 6 e il 7 aprile al 18 di luglio 1994, non è però tardi per raccontarne la storia. Perchè la loro storia ci riguarda. Non siamo diversi da loro: le cause e le dinamiche che hanno portato a questo genocidio possono verificarsi anche da noi. Conosciamole, e riconosciamole. Non mentiamo a noi stessi con frase retoriche, “never again”. Perchè il diavolo del genocidio è ancora in azione…