Pillole di Daniele Scaglione

IL GENERALE MALATO

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Di ritorno dal Rwanda, Romeo Dallaire, capo dei caschi blu e generale a quattro stelle, si ammalò. La mattina del 26 giugno del 2000, pochi giorni dopo aver abbandonato l’esercito canadese a soli 52 anni, fu trovato mezzo ubriaco e sotto l’effetto di pastiglie tranquillanti in uno dei parchi della sua città. Il suo malanno, tecnicamente, era ‘stress post traumatico’. Pativa l’aver dovuto assistere a un massacro che avrebbe potuto fermare, se solo coloro che lo avevano mandato lì a ‘mantenere la pace’ gli avessero dato quel poco che chiedeva. Dallaire è uno degli occidentali che più si è dato da fare per impedire il genocidio e, insieme ai suoi soldati, è uno dei pochi occidentali che ha patito le conseguenze del fallimento. I suoi capi – tra cui Kofi Annan, allora responsabile delle operazioni di peace keeping dell’ONU – sembrano invece molto sereni, il che è curioso, visto che è soprattutto a causa loro che si deve il mancato intervento per fermare la carneficina.

Dieci anni dopo il genocidio, in un’intervista rilasciata a Roma, a Dallaire viene chiesto se sia possibile fare in modo che il mondo impari dai suoi errori. “Ci vorrà molto tempo prima che non ci siano più conflitti dovuti alle differenze etniche, religiose, economiche – risponde il generale –  E nel frattempo milioni di persone moriranno e soffriranno. Ma la strada dei diritti umani sta avanzando. Dovremo imparare sempre più ad assistere coloro che sono in pericolo, come accade nel Darfur. E questo accadrà. Ma le lezioni si imparano lentamente. Dobbiamo lavorare nel lungo termine e non accontentarci mai dei risultati nel breve periodo”.

Aggiungi un commento maggio 26th, 2009

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Un giorno, a genocidio ancora in corso, Romeo Dallaire ricevette una telefonata dagli Stati Uniti. A cercare al telefono il capo dei caschi blu in Rwanda era un funzionario governativo, che gli fece alcune domande.
“Generale, quante persone sono state ammazzate oggi?”
Dallaire abbozzò una risposta, parlando di varie migliaia di vittime.
“E quante nella scorsa settimana?”
Dallaire ipotizzò ancora una risposta, ma quando il funzionario gli chiese quante persone immaginava che sarebbero morte nella settimana a venire, si spazientì.
“Che se ne fa di queste statistiche?”, chiese a sua volta all’interlocutore.
“Veda, generale, il mio governo sta prendendo seriamente in considerazione l’opportunità di intervenire in Rwanda a difesa dei civili”, spiegò il funzionario USA. “Ma come lei certo potrà capire, la nostra è una grande democrazia, e nel prendere decisioni importanti è necessario tenere conto del parere dei nostri cittadini. Ora, secondo un nostro sondaggio – spiegò l’uomo a Dallaire – il cittadino medio degli Stati Uniti considera la morte di un nostro soldato un fatto di gravità equivalente alla morte di 85.000 rwandesi. Come lei capirà, dunque – concluse il funzionario – prima di intervenire dobbiamo avere disposizione tutti i dati possibili”.
Alla fine, gli Stati Uniti d’America non intervennero, né per proprio conto né tramite le Nazioni Unite.

Aggiungi un commento maggio 21st, 2009

RWANDA, CONDANNATI I MEDIA

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Aggiungi un commento maggio 14th, 2009

DANIELE SCAGLIONE: “COSI’ FU PIANIFICATO IL GENOCIDIO”

Il genocidio in Rwanda non è stato un episodio incomprensibile di follia collettiva. E’ stato piuttosto la realizzazione di un piano progettato con cura. Un grande progetto di comunicazione che attraverso un uso strategico dei mezzi di informazione più diffusi ha creato un nemico. E poi ha dato istruzioni puntuali per eliminarlo. Daniele Scaglione, direttore della comunicazione di Action Aid International Italia, ha scritto il libro “Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile”.

Beppe Grillo intervista Daniele Scaglione

Aggiungi un commento maggio 7th, 2009

LE COLPE DELLA FRANCIA

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Bill Clinton, nel marzo del ’98, durante una conferenza stampa improvvisata all’aeroporto di Kigali, chiese scusa. Gli USA potevano fare molto per fermare il genocidio e non l’avevano fatto. Bill Clinton confessò di non aver capito, nel ’94, cosa stava accadendo in Rwanda. Forse è vero, chissà. Sicuramente, però, lo avevano capito molti suoi stretti collaboratori. Tra questi Madeleine Albright, che da ambasciatore USA presso il Consiglio di sicurezza dell’ONU si oppose con forza a un intervento per fermare i massacri. Ma Clinton, nonostante i suoi sensi di colpa, trovò del tutto naturale promuoverla, e nel suo secondo mandato presidenziale Albright ricoprì la carica di segretario di stato.
Il paese occidentale che si comportò in modo peggiore, però, è probabilmente la Francia. Prima del genocidio Parigi finanziò la corsa agli armamenti del paese poi, durante i massacri, sostenne il governo in mano ai responsabili del genocidio. Molte altre sono le nefandezze compiute e, sorprendentemente, è la Francia stessa ad ammetterne parecchie, in un rapporto redatto nel 1998 da una commissione parlamentare. Ma questo stesso rapporto conclude che la Francia non ha nulla da rimproverarsi – anzi! – poiché è stata l’unica nazione che realmente ha fatto qualcosa per fermare il genocidio. Una posizione assurda, ripetuta ottusamente da politici di ogni schieramento, come Mitterand, Balladour, Jack Lang, de Villepin. Cosa dovrà accadere, prima che la Francia riconosca davvero le sue responsabilità nelle atrocità del Rwanda?

Aggiungi un commento maggio 5th, 2009

LA FUGA DEGLI STRANIERI

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Non è vero che i paesi più sviluppati non sono intervenuti, nel Rwanda. All’indomani dell’attentato al presidente Habyarimana l’hanno fatto l’Italia, la Francia, il Belgio, che hanno inviato in missione alcuni tra i loro soldati migliori. Dal nostro paese il 10 aprile giungono nella capitale Kigali 112 uomini della Folgore, 65 del comando Teseo Tesei e tre velivoli da trasporto della 46esima brigata aerea. Se questi soldati europei si fossero uniti ai caschi blu per fermare le violenze, il genocidio si sarebbe forse potuto arrestare sul nascere. E se a questi militari si fossero aggiunti i marines statunitensi di stanza in Tanzania e in Burundi, il genocidio si sarebbe sicuramente potuto fermare. Ma i militari occidentali avevano un altro compito: portare in salvo gli europei e gli occidentali che si trovavano nel piccolo paese africano. Lo fecero con estremo rigore, senza lasciarsi impietosire neppure dai legami di parentela. Così coppie miste, regolarmente sposate, sono state divise e solo in alcuni casi ai figli meticci è stato concesso di mettersi in salvo. Tutto questo mentre i caschi blu che avrebbero dovuto difendere i ruandesi venivano ridotti del 90%. Come a dire che la vita degli africani vale di meno, molto di meno, di quella degli occidentali.

Aggiungi un commento aprile 23rd, 2009

IL GIORNO PEGGIORE DELL’ONU

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“Qui si sta pianificando un massacro; con i 2500 militari che ho a disposizione non posso fermarlo, ma se ne avrò almeno 5.000 impedirò lo scoppio della violenza”. Il generale Romeo Dallaire, capo dei caschi blu in Rwanda fece più volte questa richiesta ai suoi superiori all’ONU, inutilmente. Per occuparsi della questione il Consiglio di Sicurezza aspettò il 21 aprile, dopo che anche le prime pagine del Washington Post e del New York Times avevano parlato di almeno 100.000 uccisioni. Ma il rapporto del segretario generale Boutros Ghali consegnato ai membri del Consiglio non teneva affatto conto delle richieste di Dallaire, e spiegava il tutto come semplici eccessi della guera civile in corso nel paese. Secondo Boutros Ghali, dunque, il massimo che si poteva fare era lasciare 270 caschi blu a mediare tra le parti. D’altra parte l’ONU pensava a salvare la propria faccia, non il popolo rwandese. Il 30 aprile seguente al Consiglio di Sicurezza arrivò la bozza di una risoluzione che definiva ciò che stava accadendo in Rwanda come un ‘genocidio’. Questa parola venne però sostituita dall’espressione ‘crimine punibile dalla legge internazionale’. Una differenza cruciale: se fosse rimasto ‘genocidio’ l’ONU sarebbe stata obbligata a intervenire. Ma come ben spiegò l’ambasciatore britannico “se poi non attuassimo un pronto intervento faremmo una figura ridicola”. Così, a difendere i civili rwandesi rimasero un pugno di caschi blu, in maggior parte africani. Alcuni di loro pagarono la propria scelta con la vita.

 

 

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