Continua la campagna di informazione sul genocidio del Rwanda anche sul blog di Beppe Grilloche pubblica oggi l’intervista a Pierantonio Costa, console italiano nel 1994 in Rwanda. L’intervista è stata realizzata in occasione delle iniziative di Bene Rwanda Onlus per la commemorazione del XV anniversario del genocidio.
Un imprenditore italiano vive in Rwanda dal 1965. Dal 1988 al 2003 è stato console onorario per l’Italia. Nell’aprile del 1994 nel Paese esplode la violenza. Nei primi tre mesi dallo scoppio del genocidio Pierantonio Costa porta in salvò oltre 2000 persone tra cui 375 bambini di un orfanotrofio della Croce Rossa.
Sul sito di Bene Rwanda verranno pubblicati, nell’arco dei prossimi cento giorni, i capitoli del libro “La lista del Console” di Luciano Scalettari e Pierantonio Costa.
«Mi attaccano. Sono entrati. Stanno saccheggiando il centro». Tra crepitii e disturbi, era la voce di Roberta Brusaferri, resa metallica dalla radio. Un grido disperato. Erano le sei del mattino di una giornata che si presentava lunga e difficile. «Aiuto, Pierantonio, sono sola in casa. Qui non c’è più la luce, non so per quanto tempo funzionerà la radio, perché non posso ricaricare la batteria. Puoi fare qualcosa?». «Hai un posto dove rifugiarti?». «C’è una stanza blindata, proverò a barricarmi lì dentro». «Ok, ora cercherò di escogitare qualcosa. Non perdere la calma». «È una parola!» Forse era venuto il momento. La diplomatica svizzera aveva circolato per Kigali. Dovevo provarci anch’io. Avevo paura in quei momenti? Sì, molta. Non sono un eroe, non amo le armi, tanto meno sfidare la sorte.
II Episodio: Passavano le ore. Era ormai arrivata la luce piena del giorno. Una mattina grigia, tipica della stagione delle piogge. Di notizie ne arrivavano ben poche. Ma una cosa era certa: gli scontri continuavano, s’intensificavano. Ai colpi delle armi leggere ora si mescolavano i tonfi sordi dei cannoni e dei mortai.
Seconda settimana: 14 aprile 1994 – 20 aprile 1994
Nei primi giorni del genocidio gli estremisti avevano disseminato posti di blocco dappertutto e avevano massacrato migliaia di persone di etnia Tutsi scovate nelle proprie abitazioni. Ma questo trattamento era stato riservato anche agli Hutu moderati e in genere a tutti i sostenitori di una politica di conciliazione nazionale, (alcune fonti stimano che circa il 20% delle vittime del genocidio siano stati Hutu). I primi ad essere uccisi furono infatti i più importanti esponenti dei partiti democratici, i giornalisti, gli esponenti delle associazione a difesa dei diritti umani. Si trattava di Hutu e Tutsi indifferentemente. Con il proseguire dei giorni la strategia cambiò: la popolazione civile in cerca di scampo venne attirata in luoghi di raccolta con la falsa promessa di protezione da parte delle autorità locali, poiché ancora le autorità erano ritenute dalla parte della gente, contro gli estremisti. In realtà questi luoghi (le scuole, le chiese ritenute fino ad allora santuari inviolabili e altri luoghi pubblici), divennero delle trappole mortali per decine di migliaia di persone, luoghi di massacri spaventosi.
14 aprile: Massacro della parrocchia di Nyamata. La gente da ogni dove si ammassò nella chiesa e si chiuse dentro per proteggersi dalle scorribande degli assassini. Membri degli Interahamwe, la milizia Hutu, e le Forze del Governo ruandese dalle aree circostanti decisero di abbattere la porta e di irrompere nella chiesa coi propri fucili, granate e machete. Massacrarono tutte le persone che erano all’interno. Alla fine si conteranno circa 10.000 vittime (24.000 considerata l’intera area circostante). 14-15 aprile: Massacro nella parrocchia di Nyarubuye. I civili rifugiati nella chiesa vengono massacrati indiscriminatamente a colpi di machete, raffiche di mitra e granate. Alla fine si conteranno 20.000 vittime.
Una settimana dopo l’uccisione dei dieci soldati belgi, il Belgio si ritira dall’UNAMIR. A Kigali persone ferite sono trascinate fuori da un’ambulanza della Croce Rossa e uccise.
16 aprile: Fine dell’operazione Amaryllis. Il genocidio viene perpetuato nella notte ruandese, nell’intero paese.
18 aprile: Un tentativo del FPR di far tacere Radio Mille colline fallisce. Il governo ad interim silura il prefetto di Butare.
19 aprile: Diffusione da parte di Radio-Ruanda, di un discorso del presidente del GIR, Théodor Sindikubwabo, in visita a Butare, con il quale invita la popolazione di Butare a “mettersi al lavoro”. Inizio del massacro a Butare. L’ultimo soldato belga lascia Kigali.
Ho raccolto la testimonianza di una madre scampata al genocidio in Rwanda.
Sono passati 15 anni fa. Hutu contro Tutsi. Il mondo rimase a guardare. L’ONU non intervenne. Un milione di morti. Yolande aveva tre bambini. Li perse tutti. Adottò dei piccoli orfani che le diedero amore e la forza di vivere.
Yolande racconta storie atroci, di ieri e di oggi. Anche di oggi. Con assassini che eliminano i testimoni degli omicidi. Con i suicidi di chi non riesce a dimenticare. Il Rwanda è ovunque ci sia il razzismo, il pregiudizio nei confronti del diverso, l’egoismo, la presunzione di superiorità. Il genocidio è solo l’ultimo passo. Si elimina chi è inferiore, chi è valutato meno di una bestia. Prima lo si annulla, poi lo si uccide.
Una giornata per ricordare. Ma non solo. La giornata della memoria per il Rwanda è stata l’occasione per parlare approfonditamente di quello che accadde nel 1994 e per comprendere meglio i meccanismi che portarono al genocidio. Meccanismi ancora in gran parte attivi e che impediscono non solo il corso della giustizia ma anche la protezione dei sopravvissuti.
“L’Occidente ha contribuito a creare il disastro, poi ci ha abbandonati al nostro destino e ora prova semplicemente a dimenticare le vittime”. Queste le parole di Yolande Mukagasana che, dopo essersi salvata miracolosamente dal massacro e dopo aver visto la sua intera famiglia trucidata, non ha mai smesso di testimoniare il dramma del suo popolo. Una questione non solo africana, dunque, ma anche e soprattutto occidentale: la fiaccolata pomeridiana, svoltasi non a caso di fronte all’Ambasciata francese, ha avuto proprio il senso di ricordare all’Occidente le sue responsabilità.
Dov’era l’informazione allora e dov’è oggi stesso? Un milione di africani morti si dimentica in fretta. La giornata della memoria è allora stata anche l’occasione per discutere di come far ascoltare la voce del popolo ruandese. La proposta di cominciare a lavorare per una prossima candidatura di Yolande Mukagasana al premio NOBEL per la Pace, ha questo significato. Yolande, già menzione onorevole UNESCO per l’educazione alla Pace, ha già dato la sua disponibilità.
Presenti all’evento, fra gli altri, Maria Pia Fanfani, che nel 1994, portò in salvo decine di bambini dal Rwanda in guerra, e il console onorario del Rwanda in Italia, Francesco Alicicco. Scarica al link seguente il messaggio del Segretario Generale delle Nazioni Unite in occasione del XV° anniversario el genocidio in Rwanda: un-message
A seguire le foto della Giornata dl XV° aniversario della Memoria per il genocidio del Rwanda celebratosi a Roma, in piazza Farnese, di fronte all’Ambasciata Francese, e al teatro Piccolo Eliseo in via Nazionale.
La storia di “giusto” di Pierantonio Costa è diventata nota all’opinione pubblica nel 2004, dieci anni dopo il genocidio, attraverso il libro “La lista del console” (Edizioni Paoline).I 15 episodi che presentiamo sono una rielaborazione tratta da quello stesso volume, che l’editore Paoline ha volentieri concesso di utilizzare, visto l’alto significato dell’iniziativa dell’associazione “Bene Rwanda”.Nessuno li conosceva, prima, i cento giorni di Pierantonio Costa. Lui non li aveva mai raccontati, neanche in famiglia nei dettagli.
Costa vive ancora in Rwanda. Fa l’imprenditore, come in tutti i precedenti 40 anni passati nel Paese delle mille colline. Per 15 anni, dal 1988 al 2003 è stato anche console onorario per l’Italia in Rwanda. Ed è in questa veste che è cominciato il suo coinvolgimento nei tragici avvenimenti dell’aprile 1994.Io lo conobbi, come tutti i giornalisti italiani che si recavano all’epoca in Rwanda, nel corso di una missione all’interno del Paese, mentre erano in corso i massacri. Viaggiammo insieme per soli tre giorni, dal 19 al 21 maggio 1994, in una delle sue “incursioni” nel Paese per cercare di dare aiuto agli oltre 500 bambini accolti nell’orfanotrofio di Nyanza.
In occasione del 15° anniversario del genocidio in Rwanda del 1994, Dario Fo interviene con questo video alla commemorazione organizzata il 7 aprile 2009 al Teatro Piccolo Eliseo di Roma dall’associazione Bene-Rwanda.
Partendo dalla percezione vaga e distorta che l’immaginario occidentale ha del genocidio ruandese, il Premio Nobel prosegue con un’analisi degli interessi geopolitici e delle responsabilità internazionali nei tragici eventi del 1994, per finire con un’amara considerazione: la vergognosa indifferenza con la quale il mondo intero assistette al genocidio di un milione di persone in meno di 100 giorni senza intervenire, dipese anche e soprattutto da una grave colpa di quel milione di vittime: il colore della loro pelle.
Mi ricordo di una notte passata in preda al terrore di fronte alla televisione (Rai 3) che trasmetteva un lunghissimo collage di filmati sullo sterminio del Rwanda.
Parlo di terrore perché mi immedesimai in quel mare di profughi, di affamati, di feriti, di morti.
E mi chiesi, e me lo chiedo ancora, perché il mondo non reagì, perché la maggioranza degli umani furono indifferenti a quell’immane sofferenza.
Rispondere a questa domanda credo sia essenziale per la qualità della vita di ognuno di noi.
Anni dopo quella notte passata di fronte al teleschermo lessi un libro impressionante: “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, dove Hans Jonas, l’autore diceva: “La domanda che gli stermini ci pongono è: come è possibile che Dio, la provvidenza, l’energia cosmica o qualunque altra cosa governi il mondo, non sia intervenuta a fermare i malvagi o quantomeno a punirli?
Neppure i miscredenti totali riescono a fuggire da questo interrogativo”.
La nostra umanità è ferita. Eppure, non ne siamo ancora del tutto consapevoli. Come possiamo proteggere le generazioni future se non abbiamo capito nulla?
Lancio un appello a tutti i giovani affinché sappiano cosa è successo sulle colline del Rwanda. So che sono proiettati verso la vita, auspicandosi che l’umanità cambi in meglio. Hanno il dovere di cambiare il mondo in cui avranno dei figli. So che lo vogliono ed ho fiducia in loro. Sono anche convinta che ne siano capaci.
Capire e fare capire cosa è accaduto nel 1994 in Rwanda è fondamentale per comprenderel’attuale emergenza dell’etica e della giustizia a livello globale, e tentare di cambiare noi stessi ed il mondo in cui viviamo.
Dopo la caduta del muro di Berlino, questo mondo ha conosciuto anni di miope, crescente baldoria, di politiche economiche cannibalesche, di legge del più forte, di disprezzo della persona umana e dell’ambiente in nome del mercato, di erosione della democrazia e dello stato di diritto in nome degli affari, di conflitti d’interesse di ogni tipo, di saccheggio globale e speculazioni senza scrupoli e senza sanzione ai danni dei più deboli.
Quando penso ad eventi passati, mi entusiasmo – e mi deprimo – sempre meno.Immagino che con il trascorrere del tempo le immagini vadano a sfocarsi, trattenendo solo i ricordi più vividi o quelli più remoti, caricati dalla memoria quando le cellule erano intonse. Naturalmente la subdola selezione che mettiamo in atto prova a cancellare gli eventi spiacevoli, anche se tiene sempre di riserva qualche episodio detestabile, per ricordarci quanto siamo vulnerabili.
Molti di noi hanno ottenuto in sorte una vita delle più sopportabili.
A.K. – Ci siamo nascosti nelle paludi. Una sera, gli assassini ci hanno sorpresi. Ho dato loro dei soldi perché non ci uccidessero. E anche una radio. Hanno preso tutto ridacchiando. Hanno anche preso tutti i miei vestiti e persino la mia cintura. Solo allora hanno cominciato il lavoro. Hanno cominciato dai miei bambini. Ho visto cadere le gambe del primo, e poi la sua testa. Ho incominciato a gridare, allora sono venuti verso di me. Mi hanno tagliata a pezzi e sono svenuta. La mia più grande sfortuna fu di svegliarmi tra i cadaveri dei miei. Avevo addirittura il cadavere di uno dei miei figli sopra di me. Non potevo muovermi. Uno dei miei figli non era morto. Mi chiamava in continuazione. “Mamma, svegliati. Sono ancora in vita.” L’avevano tagliata dappertutto. Ho guardato tutto intorno a me, ho guardato i bambini, ho guardato mia madre. Ho detto a mia figlia sopravvissuta “dammi da bere”, anche se non poteva trovare acqua.
Siamo restate cosi per notti e giorni, paralizzate. Delle bestie venivano a mangiare i cadaveri dei miei figli, e non avevo la forza di cacciarli. Un mattino, credevo di morire, perché dei bacherozzi si muovevano nelle mie piaghe. Ho domandato a mia figlia di andare a cercare da mangiare, ma non era veramente per mangiare, era per allontanarla da me e suicidarmi senza che lei mi vedesse. Appena partita, ho messo il mio indice nella ferita che avevo sul collo e ho tirato per romperla completamente. Ma non c’era più forza nelle mie mani, non sono riuscita a finirmi. Invece di morire, il giorno dopo stavo cosi male che non potevo nemmeno bere l’acqua. Quando mia figlia è tornata, le ho spiegato il mio gesto e come non aveva funzionato… Quando il FPR ha preso la regione, non ce ne siamo rese conto. Solo 15 giorni dopo qualcuno è venuto a salvarci.
Oggi Adèle è cosi povera che non può nemmeno comprarsi le stampelle di cui ha ormai bisogno per muoversi.
Alvera M. 26 anni, superstite, Nyamirambo
A.M. – Al momento dell’assassinio del presidente, ero da mio cugino a Nyamirambo. La mattina, è arrivato un veicolo di Interahamwe. A bordo c’era un bambino che faceva vedere ai miliziani le case dei Tutsi. Ero nascosta a casa di un cuoco vicino, nei bagni dei domestici. Gli Interahamwe sono venuti a frugare parecchie volte senza trovarmi. In quel periodo, gli Hutu del sud affiliati al PSD (partito d’opposizione) non partecipavano ancora ai massacri. Erano una ventina, con dei machete e delle lance. Mi hanno trovato un altro nascondiglio. Avevo paura ma ho accettato.
Y.M. – Come sei andata a Butare?
A.M. – Era il 23 aprile. Un militare dei FAR, amico di mio cugino, è venuto da me e mi ha detto che andava a Butare. L’ho supplicato di portarmi con lui e mi ha detto “con la tua faccia, non potrei mai farti passare.” L’ho supplicato e ha detto “porto qualcuno che mi ha dato dei soldi, non voglio creargli dei problemi.” Alla fine ha ceduto. Ci sono state delle difficoltà ad attraversare Nyabarongo. Ha dovuto pagare. Arrivati alla periferia di Butare, alla stradina che portava a casa dei miei genitori, mi ha fatta scendere e ho fatto 8 km a piedi. A Butare, in alcuni comuni avevano già incominciato ad uccidere mentre in altri, come il mio, non ancora. Hanno incominciato la notte dopo il mio arrivo, da mio padre. I miei fratelli sono stati nascosti da un vicino che è poi andato a denunciarli. La casa è stata incendiata, loro sono bruciati vivi. Una settimana dopo, hanno assassinato mia madre. Quanto a me, poiché un miliziano venuto da Kigali diceva che ero morta, hanno smesso di cercarmi. Sono rimasta nelle piantagioni di sorgo dove ho assistito all’uccisione dei miei nipotini e nipotine; gli assassini li hanno gettati nelle latrine. Alla fine, anche mia sorella è stata uccisa. E io, sono stata salvata dal FPR.
Y.M. – Di cosa vivi oggi?
A.M. – Dopo il genocidio, ho cercato i beni dei miei fratelli di Kigali. Li ho ritrovati. Li ho venduti.
Y.M. – E ora?
A.M. – Ora vivo per l’orfana di mio fratello, l’unico membro della famiglia che mi è rimasto. è lei che mi dà la forza di vivere. Se ce ne fosse bisogno, sarei disposta a prostituirmi per pagare i suoi studi. Spero che riesca nella vita.
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana