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RWANDA 1994 – QUINDICI ANNI DI COLPEVOLE OBLIO

Tra il 6 aprile ed il 18 luglio 1994, si é compiuto in Ruanda uno dei piú mostruosi crimini della storia dell’umanitá: il genocidio dei Tutsi (accompagnato dai massacri degli Hutu moderati) commesso dagli estremisti dell’Hutu Power. Almeno ottocentomila persone (un milione secondo alcune stime) furono massacrate nello spazio di cento giorni, ad un ritmo cinque volte superiore a quello del genocidio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, con modalitá particolarmente barbare ed atroci.

Il genocidio dei Tutsi, che affonda le sue radici nei gravissimi, criminali errori commessi dal colonialismo belga (colpevole di avere artificialmente creato il divisionismo etnico nella societá ruandese), fu pianificato, organizzato, istigato e compiuto, a diversi livelli di responsabilitá, dal governo ruandese, dall’esercito regolare ruandese, da milizie estremiste quali i famigerati Interahamwe e Inpuzamugambi, e da milioni di ruandesi, uomini e donne, istigati dal nazismo tropicale dell’Hutu Power.

Le Nazioni Unite (benchè fossero presenti sul campo con una missione di pace) e le potenze internazionali (in primis la Francia, alleata del governo ruandese dell’epoca, e gli Stati Uniti), informate con largo anticipo di quanto si stava preparando, nulla fecero per evitare o almeno bloccare il genocidio dei Tutsi.

Mentre si commettevano massacri su larghissima scala ed efferratezze innominabili, preferirono ignorare gli obblighi non solo morali, ma anche legali, derivanti dalla Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. A lungo rifiutando persino che si pronunciasse la parola “genocidio” (per non doverne trarre le conseguenze legali previste dalla Convenzione) mentre i massacratori proseguivano il “lavoro”, la comunitá internazionale non intervenne a porre un fine al genocidio e a difendere le vittime, ma lasció invece che fossero atrocemente trucidate.

La Radio Televisione delle Mille Colline incitava la popolazione a “tagliare tutti gli alberi alti”, ricordando che “le fosse” erano “solo a metá piene”, e intanto i mass-media internazionali erano incapaci o addirittura riluttanti a spiegare quanto realmente succedeva in quell piccolo (e fino ad allora pressoché sconosciuto) paese africano.

Non svolsero affatto il loro dovere di divulgare un’informazione chiara e veritiera all’opinione pubblica internazionale, peraltro già distratta da altri eventi internazionali, quali i campionati del mondo di calcio negli Stati Uniti, la fine dell’era dell’apartheid in Sudafrica, o il prolungarsi del conflitto nell’Ex-Yugoslavia. Non spiegarono che era in corso un genocidio lungamente annunciato, e diffusero invece la vaga e menzognera idea che quanto stava accadendo in Ruanda era uno scoppio irrazionale ed improvviso di violenza, un tipico “conflitto interetnico”, una questione “tra selvaggi africani” per la quale c’e’ ben poco da fare, nella quale non vale la pena interferire.

Paradossalmente, ulteriore imperdonabile offesa alle vittime del genocidio, furono questi stessi media occidentali che avevano ignorato lo sterminio dei Tutsi a suscitare poi l’ondata di commozione pubblica internazionale intorno alla sorte dei milioni di “profughi” hutu colpiti da un’epidemia di colera nei campi infernali di Goma e Bukavu, nell’allora Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo!

Tuttavia non di classici profughi si trattava, ma in larga misura di assassini fuggitivi, poichè in tali campi spadroneggiavano, numerosissimi, gli autori del genocidio, i promotori, i pianificatori, i miliziani e centinaia di migliaia di ordinari assassini, tenendo in ostaggio il resto della massa di oltre due milioni di Hutu che si era riversata in Congo ed altri paesi vicini alla fine del genocidio, mentre l’esercito francese ne copriva la ritirata strategica.

Questa fuga di massa senza precedenti nella storia scaturiva dall’avanzata delle truppe vittoriose del Fronte Patriottico Ruandese, il movimento di opposizione armata predominatemente Tutsi, che aveva appena vinto la guerra civile e progressivamente messo fine al genocidio, e che si apprestava a prendere il controllo politico e amministrativo del paese. Con la generosa e quantomeno acritica assistenza della comunitá umanitaria internazionale, questi fuggitivi, guidati dalle gerarchie genocidarie ed inquadrati dalle milizie, rimasero per due anni in campi vicini alle cittá di Goma e Bukavu, sulla frontiera stessa tra Zaire e Ruanda, da lì proseguendo le azioni militari e gli atti di genocidio nel vicino Ruanda.

Nel 1996, questi campi furono chiusi con la forza dall’esercito ribelle congolese guidato da Laurent Désiré Kabila, la cui inesorabile avanzata, sostenuta dall’Esercito Patriottico Ruandese e dai guerriglieri Banyamulenge (Tutsi congolesi), finí poi per rovesciare il trentennale regime del giurassico, cleptocratico despota Joseph Désiré Mobutu Sese Seko, fondando l’attuale Repubblica Democratica del Congo (RDC).

Numerosi Hutu perirono nei combattimenti; una parte si disperse per l’Africa e per il mondo; molti miliziani Interahamwe rimasero nell’est della RDC, dove hano imperversato fino ad oggi taglieggiando le popolazioni civili, stuprando donne e bambini senza pietà, e costituendo la causa principale del perpetuarsi fino ad oggi del cruentissimo conflitto congolese, che ha portato alla destabilizzazione regionale, e allo sfruttamento illecito delle ricchezze minerali della RDC da parte di numerosi attori congolesi, regionali ed internazionali.

Una larga maggioranza di Hutu fece comunque ritorno in un paese devastato e coperto di cadaveri, dove rimanevano gli Hutu che non erano fuggiti ed i pochissimi Tutsi dell’interno sopravvissuti. Contemporaneamente fecero ritorno, dopo la fine del genocidio, centinaia di migliaia di Tutsi della diaspora, che mettevano fine ad un esilio trentennale cominciato con i primi pogrom anti-Tutsi del 1959 che avevano segnato l’inizio del dominio Hutu in Ruanda.

Il nuovo governo ruandese, guidato dall’Fronte Patriottico Ruandese dell’attuale presidente Paul Kagame, si confrontava con il compito dantesco di risollevare dalle ceneri del genocidio un paese devastato, insanguinato e spopolato. Tra i molteplici, simultanei sforzi prioritari necessari in un tale contesto post-apocalittico, da cui si ripartiva da molto sotto zero, si impose con grande forza anche quello della giustizia del genocidio.

Tuttavia, come rendere tale giustizia, quando gli avvocati, i giudici, i funzionari, o erano stati massacrati, o erano divenuti massacratori, o si trovavano in fuga, o dispersi? Si dovevano giudicare oltrei centomila reclusi in attesa di giudizio nelle carceri piú sovraffollate del pianeta, e chiarire le responsabilità di una massa di almeno due milioni di persone in libertá o in fuga, che avrebbero partecipato a vari livelli al genocidio.

Questo immane processo é tuttora in corso, ed ha assunto forme molto varie e particolari. Esiste in Ruanda un contenzioso moderno nazionale specializzato nella giustizia del genocidio (ovvero gestito dal sistema giudiziario attraverso sezioni specializzate dei tribunali), che ha giudicato più di diecimila persone; e per affrontare l’emergenza di giudicare una massa sterminata di ordinari assassini, è stato allestito un particolare processo di giustizia derivato dal modello di giustizia tradizionale ruandese (chiamato “gacaca”) che ha funzioni non solo giudiziarie in senso stretto, ma di catarsi e, nella misura del possibile, di riconciliazione nazionale, per quanto ci si possa riconciliare dopo un genocidio…

Le Nazioni Unite, colpevoli di inazione nel 1994, hanno lanciato un anno dopo un (costoso e molto criticato) processo di giustizia internazionale ad hoc (il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, sito a Arusha in Tanzania); e si sono osservati vari esempi di applicazione del principio di competenza universale per crimini contro l’umanitá che hanno portato alla celebrazione di processi a ruandesi accusati del genocidio in Belgio, Canada, Svizzera…

Tutti questi processi di giustizia, nonché la ricostruzione storica degli eventi da parte di giornalisti, studiosi, testimoni (quali in particolare Philippe Gourevitch, Colette Braekman, il generale Romeo Dallaire, la sopravvissuta Yolande Mukagasana) ed organizzazioni (quali in particolare la Federazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo, Human Rights Watch, African Rights ed altri), nonchè il riconoscimento ufficiale del genocidio da parte dell’ONU, hanno dimostrato senza equivoco nè dubbio la realtá del genocidio dei Tutsi e le responsabilitá di un grande numero di individui appartenenti all’Hutu Power. Vari studi hanno anche sottolineato le responsabilitá delle chiese (ed in particolare la Chiesa Cattolica ruandese) e di certi paesi (soprattutto la Francia), coinvolti a vario titolo nel genocidio ruandese.

Tuttavia, questa veritá, a differenza della veritá sul genocidio degli ebrei, a tutt’oggi non é di dominio pubblico, non fa parte della cultura e della coscienza universali, ma rimane il patrimonio dei cosiddetti “africanisti”, l’appannaggio di “specialisti”: come dire che i crimini che altrove offendono l’umanitá nel suo insieme, in Africa, parafrasando Mitterrand, “non sono troppo importanti” .

Quindici anni dopo, è giunto il momento di rendere infine giustizia alle vittime del genocidio ruandese, è giunto il momento di rendere giustizia all’Africa, e affermare il principio che ogni genocidio, anche se le vittime sono Africane, offende l’umanità nel suo insieme e non può essere ignorato. Se è troppo tardi per salvare il milione di uomini, donne e bambini che sono stati violati, torturati e sterminati dalla notte tra il 6 e il 7 aprile al 18 di luglio 1994, non è però tardi per raccontarne la storia. Perchè la loro storia ci riguarda. Non siamo diversi da loro: le cause e le dinamiche che hanno portato a questo genocidio possono verificarsi anche da noi. Conosciamole, e riconosciamole. Non mentiamo a noi stessi con frase retoriche, “never again”. Perchè il diavolo del genocidio è ancora in azione…

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