Quando penso ad eventi passati, mi entusiasmo – e mi deprimo – sempre meno. Immagino che con il trascorrere del tempo le immagini vadano a sfocarsi, trattenendo solo i ricordi più vividi o quelli più remoti, caricati dalla memoria quando le cellule erano intonse. Naturalmente la subdola selezione che mettiamo in atto prova a cancellare gli eventi spiacevoli, anche se tiene sempre di riserva qualche episodio detestabile, per ricordarci quanto siamo vulnerabili.
Molti di noi hanno ottenuto in sorte una vita delle più sopportabili.
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aprile 5th, 2009
KANDERA Adèle
49 anni, superstite, Nyamata
A.K. – Ci siamo nascosti nelle paludi. Una sera, gli assassini ci hanno sorpresi. Ho dato loro dei soldi perché non ci uccidessero. E anche una radio. Hanno preso tutto ridacchiando. Hanno anche preso tutti i miei vestiti e persino la mia cintura. Solo allora hanno cominciato il lavoro. Hanno cominciato dai miei bambini. Ho visto cadere le gambe del primo, e poi la sua testa. Ho incominciato a gridare, allora sono venuti verso di me. Mi hanno tagliata a pezzi e sono svenuta. La mia più grande sfortuna fu di svegliarmi tra i cadaveri dei miei. Avevo addirittura il cadavere di uno dei miei figli sopra di me. Non potevo muovermi. Uno dei miei figli non era morto. Mi chiamava in continuazione. “Mamma, svegliati. Sono ancora in vita.” L’avevano tagliata dappertutto. Ho guardato tutto intorno a me, ho guardato i bambini, ho guardato mia madre. Ho detto a mia figlia sopravvissuta “dammi da bere”, anche se non poteva trovare acqua.
Siamo restate cosi per notti e giorni, paralizzate. Delle bestie venivano a mangiare i cadaveri dei miei figli, e non avevo la forza di cacciarli. Un mattino, credevo di morire, perché dei bacherozzi si muovevano nelle mie piaghe. Ho domandato a mia figlia di andare a cercare da mangiare, ma non era veramente per mangiare, era per allontanarla da me e suicidarmi senza che lei mi vedesse. Appena partita, ho messo il mio indice nella ferita che avevo sul collo e ho tirato per romperla completamente. Ma non c’era più forza nelle mie mani, non sono riuscita a finirmi. Invece di morire, il giorno dopo stavo cosi male che non potevo nemmeno bere l’acqua. Quando mia figlia è tornata, le ho spiegato il mio gesto e come non aveva funzionato… Quando il FPR ha preso la regione, non ce ne siamo rese conto. Solo 15 giorni dopo qualcuno è venuto a salvarci.
Oggi Adèle è cosi povera che non può nemmeno comprarsi le stampelle di cui ha ormai bisogno per muoversi.
Alvera M.
26 anni, superstite, Nyamirambo
A.M. – Al momento dell’assassinio del presidente, ero da mio cugino a Nyamirambo. La mattina, è arrivato un veicolo di Interahamwe. A bordo c’era un bambino che faceva vedere ai miliziani le case dei Tutsi. Ero nascosta a casa di un cuoco vicino, nei bagni dei domestici. Gli Interahamwe sono venuti a frugare parecchie volte senza trovarmi. In quel periodo, gli Hutu del sud affiliati al PSD (partito d’opposizione) non partecipavano ancora ai massacri. Erano una ventina, con dei machete e delle lance. Mi hanno trovato un altro nascondiglio. Avevo paura ma ho accettato.
Y.M. – Come sei andata a Butare?
A.M. – Era il 23 aprile. Un militare dei FAR, amico di mio cugino, è venuto da me e mi ha detto che andava a Butare. L’ho supplicato di portarmi con lui e mi ha detto “con la tua faccia, non potrei mai farti passare.” L’ho supplicato e ha detto “porto qualcuno che mi ha dato dei soldi, non voglio creargli dei problemi.” Alla fine ha ceduto. Ci sono state delle difficoltà ad attraversare Nyabarongo. Ha dovuto pagare. Arrivati alla periferia di Butare, alla stradina che portava a casa dei miei genitori, mi ha fatta scendere e ho fatto 8 km a piedi. A Butare, in alcuni comuni avevano già incominciato ad uccidere mentre in altri, come il mio, non ancora. Hanno incominciato la notte dopo il mio arrivo, da mio padre. I miei fratelli sono stati nascosti da un vicino che è poi andato a denunciarli. La casa è stata incendiata, loro sono bruciati vivi. Una settimana dopo, hanno assassinato mia madre. Quanto a me, poiché un miliziano venuto da Kigali diceva che ero morta, hanno smesso di cercarmi. Sono rimasta nelle piantagioni di sorgo dove ho assistito all’uccisione dei miei nipotini e nipotine; gli assassini li hanno gettati nelle latrine. Alla fine, anche mia sorella è stata uccisa. E io, sono stata salvata dal FPR.
Y.M. – Di cosa vivi oggi?
A.M. – Dopo il genocidio, ho cercato i beni dei miei fratelli di Kigali. Li ho ritrovati. Li ho venduti.
Y.M. – E ora?
A.M. – Ora vivo per l’orfana di mio fratello, l’unico membro della famiglia che mi è rimasto. è lei che mi dà la forza di vivere. Se ce ne fosse bisogno, sarei disposta a prostituirmi per pagare i suoi studi. Spero che riesca nella vita.
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
aprile 5th, 2009
Mezza pagina di Daniele Scaglione
Commenti, notizie, testimonianze e aneddoti in pillole raccontate da Daniele Scaglione, capo del dipartimento campaigning di ActionAid Italy
“Qui si sta pianificando un massacro; con i 2500 militari che ho a disposizione non posso fermarlo, ma se ne avrò almeno 5.000 impedirò lo scoppio della violenza”. Il generale Romeo Dallaire, capo dei caschi blu in Rwanda fece più volte questa richiesta ai suoi superiori all’ONU, inutilmente. Per occuparsi della questione il Consiglio di Sicurezza aspettò il 21 aprile, dopo che anche le prime pagine del Washington Post e del New York Times avevano parlato di almeno 100.000 uccisioni. Ma il rapporto del segretario generale Boutros Ghali consegnato ai membri del Consiglio non teneva affatto conto delle richieste di Dallaire, e spiegava il tutto come semplici eccessi della guera civile in corso nel paese. Secondo Boutros Ghali, dunque, il massimo che si poteva fare era lasciare 270 caschi blu a mediare tra le parti. D’altra parte l’ONU pensava a salvare la propria faccia, non il popolo rwandese. Il 30 aprile seguente al Consiglio di Sicurezza arrivò la bozza di una risoluzione che definiva ciò che stava accadendo in Rwanda come un ‘genocidio’. Questa parola venne però sostituita dall’espressione ‘crimine punibile dalla legge internazionale’. Una differenza cruciale: se fosse rimasto ‘genocidio’ l’ONU sarebbe stata obbligata a intervenire. Ma come ben spiegò l’ambasciatore britannico “se poi non attuassimo un pronto intervento faremmo una figura ridicola”. Così, a difendere i civili rwandesi rimasero un pugno di caschi blu, in maggior parte africani. Alcuni di loro pagarono la propria scelta con la vita.
aprile 5th, 2009