Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” diYolande Mukagasana
Alice M.
28 anni, superstite, Nyamata A.M. – Un camion si è fermato davanti alla nostra casa, sono entrati degli uomini in uniforme da militari e da gendarmi. Uno di loro ha detto: “che bella ragazza, non ho il coraggio di ucciderla”. Ha frugato la casa, ha saccheggiato tutto, ha persino preso gli abiti che indossavo. Un secondo assassino ha preso mio figlio in braccio e lo lanciava in aria con violenza. È così che l’ha ucciso. “Suicidatevi signora, diceva, il Dio dei Tutsi è morto, non avete nessuna possibilità di sopravvivere”. Mio marito era riuscito a nascondersi. Io ho ricevuto un colpo sulla testa e sono svenuta. Quando se ne sono andati, mio marito mi ha scosso per svegliarmi e fuggire verso la Chiesa di Ntarama. Là, c’erano solo cadaveri. Allora abbiamo raggiunto la resistenza nella nostra zona e siamo rimasti là fino alla morte di tutti i sopravvissuti. Ci siamo allora nascosti nelle paludi. È là che mi hanno tagliato il braccio.
Y.M. – Chi ti ha tagliato il braccio?
A.M. – È difficile dirlo perché siamo stati attaccati da diversi gruppi di assassini. Mi ricordo solo che il giorno in cui ho avuto il braccio tagliato, ho visto che buttavano nell’acqua mio marito e lui non sapeva nuotare… Sanguinavo e ho perso conoscenza. Quando mi sono svegliata, parecchi giorni dopo, ero in una specie di ospedale. Mi ricordo che quando mi hanno tagliato la mano, non ho avuto male, ho solo sentito le ossa rompersi; dopo, ho avuto molto male.
Y.M. – Vedo che avete avuto due bambini dopo il genocidio, questo vi ha fatto dimenticare il vostro bambino ucciso?
A.M. – No, per niente. Amo anche loro ma niente può farmi dimenticare il mio bambino morto. È una ferita che non si cicatrizzerà mai.
Y.M. – Fai parte di questa associazione di handicappati che ho incontrato?
A.M. – No, non ho il tempo. Ho avuto due bambini dopo il genocidio e ho accolto tre orfani. Ho solo una mano, non è facile lavorare. Con mio marito, dobbiamo cercare di trovare qualcosa per nutrire questi bambini. Non ho il tempo di partecipare a delle riunioni di associazione.
Y.M. – Bisogna provare perché è importante essere con gli altri e poter parlare.
A.M. – È vero, a volte ci sentiamo molto soli di fronte a noi stessi.
André H.
34 anni, autore del genocidio, prigione di Kigali
Y.M. – Perché sei in prigione?
A.H. – Sono stato arrestato perché dicono che ho partecipato al genocidio.
Y.M. – E non è vero?
A.H. – Non è vero. Non ho ucciso nessuno.
Y.M. – Hai dei testimoni della tua innocenza?
A. H. – Sfortunatamente no. Tutti i miei vicini sono contro di me, persino quelli che erano con me durante il genocidio.
Y.M. – Perché pensi che sono contro di te?
A.H – Non so.
Y.M. – Dove stavi durante il genocidio?
A.H. – Ero a casa mia, ero molto malato e sono rimasto a letto.
Y.M. – Sei rimasto a letto per tre mesi?
A.H. – Sì, non mi sono mai alzato.
Y.M. – Non hai visto il genocidio?
A.H. – No.
Y.M. – Non sei scappato dalla guerra?
A.H – Sì, sono andato nello Zaire.
Y.M. – Quando sei tornato?
A.H. – Qualche mese fa.
Y.M. – Perché non sei rientrato prima?
A.H. – Perché tutti dicevano che ho ucciso un bambino di 12 anni e altre persone.
Y.M. – E conoscevi questo bambino?
A.H. – Sì, ma non l’ho ucciso, sono solo passato vicino al suo cadavere.
Prima dell’incontro, ho chiesto di che cosa era accusato quest’uomo. Mi hanno detto che ha commesso molti omicidi durante il genocidio. Avrebbe violentato un bambino di 12 anni prima di ucciderlo. Ne ho avuto abbastanza di ascoltarlo, era troppo duro e ho dovuto smettere.
K. Caritas, G. Jean-Marie-Vianney
8 anni e superstiti entrambi, Ngoma (Butare)
Caritas ride quando le chiedo se devo togliermi gli occhiali per parlarle. Parla con calma.
“Gli assassini hanno prima ucciso mamma. Lei ci gridava di non restare con lei, di fuggire. Quando mamma è morta, abbiamo vagato. Ma ci siamo imbattuti in altri assassini che ci hanno colpito con dei machete e gettati, mio fratello Alphonse, mia sorella Cérapia ed io, in una fossa. Solo io non ero stata colpita. Ma ho constatato che Alphonse era morto e che Cérapia aveva una grande ferita sul collo. Venuta la notte siamo riuscite a scappare, Cérapia ed io, e abbiamo vagabondato nascondendoci tra i cespugli. Il giorno dopo, abbiamo camminato e siamo arrivate ai piedi di una collina dove abbiamo trovato una piccola pozza riempita di cadaveri. Tra i corpi, c’erano degli spazi in cui si vedeva l’acqua, rossa a causa del sangue che vi era scorso. Ma avevamo talmente sete che abbiamo bevuto lo stesso.”
La madre adottiva di Caritas assisteva al colloquio. Mi spiega che Caritas ha avuto molti problemi psicologici dopo il genocidio. Non dormiva, si innervosiva per nulla, non accettava nessuna osservazione. Ma ora va meglio. Il suo ricordo del genocidio è totale.
Jean-Marie-Vianney
“Eravamo in una chiesa, ma la chiesa è bruciata. Siamo scappati di corsa. Mamma mi portava sulla schiena. A una barriera, ci hanno picchiato. Ho ricevuto un colpo molto violento sulla gamba. E poi mamma un giorno ha detto che andavamo nel Burundi. E poi un giorno hanno ucciso mamma. E poi, mi hanno portato in Europa, in un ospedale. E mi hanno curato. Mi facevano delle iniezioni. Oggi la mia gamba mi fa ancora male.”
Jean-Marie-Vianney è il fratello di adozione di Caritas. Nonostante un trattamento in Germania a causa di un trauma psicologico grave, si ricorda solo questi fatti e il suo soprannome: Kibonge, il cicciottello. È diventato un bimbo troppo calmo per la sua età.
Metà pomeriggio
attraversando globe
mia sorella ubriaca sul sedile posteriore
elencando
tutti i bar dove bazzicano i pellerossa
Superata la riserva
dei san carlos apache
guardo i sogni incerti fatti di pioggia
nello specchietto retrovisore
fermo a fare benzina
i tergicristalli che creano un’immagine
surreale
di questa città
ho la bocca secca dopo aver guidato senza sosta
dall’Oklahoma
siamo solo indiani persi nella foschia
dell’america
e di nuovo
siamo venuti a seppellire i nostri morti.
mid afternoon
driving through globe
my sister drunk in the back seat naming all
the bars the skins hang out in
after passing the san carlos apache
reservation
i watch shaky dreams made of rain
in the rear view mirror
pulling into a station for gas
the wipers create a surreal picture
of this city
my mouth cotton dry after driving non stop
from oklahoma
were just indians lost in the blur
of america
and again
we have come to bury our dead (31/10/1987)
Ferocia nera o barbarie bianca?
Sento ancora la voce di quel missionario.
«Come ti chiami?».
«Yolande».
«Yolande come?».
«Yolande Mukagasana».
«Ancora un nome da selvaggio. Come vuoi che possa ricordarmelo?».
Commenti, notizie, testimonianze e aneddoti in pillole
raccontate da Daniele Scaglione, capo del dipartimento
campaigning di ActionAid Italy
Di ritorno dal Rwanda, Romeo Dallaire, capo dei caschi blu e generale a quattro stelle, si ammalò. La mattina del 26 giugno del 2000, pochi giorni dopo aver abbandonato l’esercito canadese a soli 52 anni, fu trovato mezzo ubriaco e sotto l’effetto di pastiglie tranquillanti in uno dei parchi della sua città. Il suo malanno, tecnicamente, era ‘stress post traumatico’. Pativa l’aver dovuto assistere a un massacro che avrebbe potuto fermare, se solo coloro che lo avevano mandato lì a ‘mantenere la pace’ gli avessero dato quel poco che chiedeva. Dallaire è uno degli occidentali che più si è dato da fare per impedire il genocidio e, insieme ai suoi soldati, è uno dei pochi occidentali che ha patito le conseguenze del fallimento. I suoi capi – tra cui Kofi Annan, allora responsabile delle operazioni di peace keeping dell’ONU – sembrano invece molto sereni, il che è curioso, visto che è soprattutto a causa loro che si deve il mancato intervento per fermare la carneficina.
Dieci anni dopo il genocidio, in un’intervista rilasciata a Roma, a Dallaire viene chiesto se sia possibile fare in modo che il mondo impari dai suoi errori. “Ci vorrà molto tempo prima che non ci siano più conflitti dovuti alle differenze etniche, religiose, economiche – risponde il generale –E nel frattempo milioni di persone moriranno e soffriranno. Ma la strada dei diritti umani sta avanzando. Dovremo imparare sempre più ad assistere coloro che sono in pericolo, come accade nel Darfur. E questo accadrà. Ma le lezioni si imparano lentamente. Dobbiamo lavorare nel lungo termine e non accontentarci mai dei risultati nel breve periodo”.
Avevo ormai perso il conto dei miei viaggi. Arrivavo e ripartivo in continuazione. La tragedia sembrava non avere fine, e si moltiplicavano le richieste d’aiuto, le segnalazioni, i tentativi di portare fuori gruppi di persone in pericolo. Eppure non si poteva fare molto: aiutare quei pochi con cui entravi in contatto, aggregare qualcun altro a un convoglio. Gli altri, tutti gli altri, erano abbandonati a se stessi.
Il 3 maggio volli arrivare alla capitale, Kigali, accompagnato da Marziano Bettega, il direttore dell’Astaldi, e da un militare. Lungo il percorso c’erano sempre moltissimi barrage, ma anche tanti sfollati accampati in qualche modo ai bordi della strada. Si erano fatti una capanna con quattro rami e un telo azzurro delle Nazioni Unite. Erano hutu che fuggivano dalla guerra. L’Fpr stava vincendo. Conquistava pezzi di territorio, e aveva preso anche il campo militare di Kanombe, nei pressi dell’aeroporto internazionale.
In quei giorni era in corso un’offensiva verso il quartiere di Nyamirambo. La gente scappava dai bombardamenti. Si accampavano a 30-40 km da Kigali, e aspettavano tempi migliori.
Per entrare in città si doveva attraversare un tratto esposto al tiro dei cannoni: meno di cinquecento metri nei quali si poteva solo accelerare e incrociare le dita. “Anche questa volta è andata bene”, pensai. Guardai il soldato che mi scortava alla mia destra: aveva la paura dipinta sul viso, era più spaventato di me.
Andammo alla gendarmeria e ottenemmo altri quattro soldati di scorta. Ci dividemmo. Bettega andò a prendere le carte e i dischetti del computer che aveva lasciato in ufficio. Io cominciai i miei giri.
Avevo la macchina piena di viveri, per i miei dipendenti. Qualcuno era scappato ma molti erano ancora in città. Volevo andare soprattutto da un mio vecchio dipendente, Alphonse, e dal contabile, Justin, che abitavano proprio a Nyamirambo, uno dei quartieri più decimati dai massacri.
Per arrivarci passai davanti al mio negozio, e vidi che era tutto in ordine. La strada era completamente deserta, ma non c’erano segni di saccheggio. Continuai a svoltare per le strade: vidi il concessionario di automobili, il bar, i negozi, le altre vetrine. Tutto chiuso, ma tutto in ordine. Non c’era stato alcun saccheggio. In giro non c’era anima viva.
Poi sbucai al mercato. Improvvisamente comparvero le barriere. Da quel punto in poi a ogni incrocio c’era un posto di blocco, ogni cento metri. Scorsi un colonnello che conoscevo, e gli chiesi di salire in macchina, per poter procedere più spedito. Mi resi conto che i posti di blocco erano anche una forma di autodifesa e di sorveglianza degli accessi della zona, perché, nel caos totale, oltre alle bande di assassini c’erano in giro anche gruppi di sciacalli e di ladri. Tutti quelli che venivano dall’esterno potevano essere dei potenziali pericoli, così le barriere erano divenute anche una forma di controllo capillare del territorio per evitare saccheggi e aggressioni.
Arrivammo alla casa di Alphonse, che era malato. Lasciammo alla moglie scorte di cibo e soldi. Poi mi spostai da Justin, il contabile. Aveva oltre cinquant’anni, non più di un metro e sessanta, più largo che alto. Un intellettuale, pacifico e tranquillo; da sempre lo conoscevo come una persona aperta al dialogo. Suo padre era stato il primo direttore ruandese di banca a Butare, ed era stato ucciso pochi giorni prima perché era intervenuto a difendere una persona che avevano arrestato a un posto di blocco. Justin era un hutu. Non aveva mai fatto del male a nessuno.
Mi accolse con una bomba a mano e una pistola infilate nella cintola, e il mitragliatore in mano. «Justin», gli dissi, «ma da quando hai imparato a sparare? Cosa fai, ti ha dato di volta il cervello?». Stava preparandosi per fare il suo turno alla barriera. «No», rispose, «bisogna difendersi, perché arrivano da tutte le parti. Non si sa mai chi è amico e chi nemico, perché anche gli hutu che vengono da fuori, se possono rubare, rubano. Bisogna difendersi».
Due soli dipendenti avevano le chiavi del negozio. Justin era uno dei due. «Vorranno prendere la roba in negozio, Justin», aggiunsi. «Fai quello che puoi. Cerca di salvare il più possibile, ma se devi dare dai. Meglio la merce che la pelle». In realtà, era già stato costretto a prelevare della roba dal negozio. Gli diedi un po’ di soldi, ma forse aveva ottenuto qualche pagamento dalla cessione del materiale. «Non preoccuparti», mi disse. «Penso io a distribuire un po’ di denaro e viveri anche agli altri dipendenti. So come raggiungerli». Ma non lo fece, come seppi in seguito.
Justin e la sua famiglia furono trucidati. Accadde molto più tardi, a metà giugno. Anche lui, come tanti altri, scappò quando ci fu la disfatta dell’esercito. Cercò di andare verso il confine dello Zaire, insieme al fiume di profughi che lasciò il Ruanda in quei giorni. A Ruhengeri, nel Nord-ovest del Paese, pare che un gruppo di soldati in rotta avesse intuito, o saputo, che Justin aveva con sé parecchio denaro. Per quel che sono riuscito a sapere, li hanno uccisi per derubarli. Infine passai a casa di Tchali, il mio braccio destro nella società Bandag, l’officina di pneumatici. Era voluto rimanere a Kigali perché, essendo per un quarto indiano e per tre quarti ruandese, non era considerato né hutu né tutsi. «Così», aveva detto, «quando posso, vado a sorvegliare la fabbrica». Ma adesso era in mezzo ai bombardamenti. «Che cosa fa ancora là?», dissi a sua moglie. Lei era tutsi. «Non vuole venire via», mi rispose, «non vuole lasciare il posto. Dice che deve proteggere Bandag».
Lo raggiunsi all’officina: «Dai, Tchali, andiamo». Non rispose. Si caricò in spalla uno zainetto e salì in macchina. Aveva il bagaglio già pronto, ma se non gliel’avessi detto io, non sarebbe venuto via.
Tornai a casa. Lungo la strada, sul marciapiede, ai piedi di un albero vidi un tanica di benzina vuota. Pensai: “Chissà se ce l’ha fatta”. Quella benzina me l’aveva chiesta un ragazzo tutsi che lavorava nella banca Bacar di Kigali. Lo incontrai mentre l’ambasciatore americano organizzava la colonna di macchine dei suoi connazionali per lasciare il Paese, il 9 aprile. Mi si avvicinò e mi disse: «Fammi un favore, portami alla stazione di benzina. Gli americani mi accettano nella colonna, ma non ho abbastanza carburante. Se perdo questa occasione non esco più, le barriere non le supero».
Ero convinto che al distributore non ci sarebbe mai arrivato, non avrebbe superato i barrage. Mi venne un’idea: la casa del padre di Renata, la mia segretaria, era poco lontano. Andai da lui e gli chiesi se aveva un po’ di scorta di benzina. «Tanto non te ne fai più niente. Usciremo tutti in aereo, e quello che lasciamo qui non ha più alcuna importanza. Dammene una tanica», gli dissi. La portai al giovane tutsi. Il bidone vuoto era rimasto là, sotto l’albero.
Quel ragazzo lo rividi tre mesi dopo, quando tutto era finito. Era ritornato a Kigali. «La tua benzina», mi disse, «mi ha portato fino a Bujumbura, con tutta la mia famiglia. Hai salvato cinque persone con venti litri di carburante». Gli diedi solo una pacca sulla spalla. Aveva ragione.
A casa non m’aspettavano. I miei quindici ospiti mi fecero grandi feste. Lasciai loro due valige di beni di prima necessità. Poi mi guardai intorno e mi sentii smarrito. Avevo con me due borse vuote, e un’intera casa da portare via. Era rimasto tutto come lo avevamo lasciato. Non sapevo che fare: fra quelle mura c’erano trent’anni di vita e di ricordi. Finii per infilare nelle borse qualche vestito leggero, che ci serviva a Bujumbura, e pochi piccoli oggetti cui ero particolarmente affezionato. Salutai tutti, mi girai un’ultima volta a osservare quella che era stata la mia casa. E che pensavo di non rivedere mai più.
Bettega si fece trovare nel luogo convenuto. Si doveva ripartire, per arrivare alla frontiera prima del buio. Riportammo i quattro militari alla gendarmeria. Il colonnello Rutaysire mi prese in disparte: «Ho bisogno di far andare a Bujumbura i miei due figli», mi disse. «Posso affidarteli?». «Va bene», risposi, «se ci dai la scorta, non c’è problema». In pochi minuti ci fece trovare pronta una camionetta con dentro i due ragazzi e sopra cinque soldati.
Uscimmo da Kigali, e ci trovammo in quel tratto di poche centinaia di metri esposto al fuoco dell’Fpr. Questa volta non la passammo liscia. Credo che da lontano avessero confuso la bandiera italiana con quella francese, e i francesi li consideravano nemici.
Sentimmo il colpo, lontano, il fischio della bomba che arrivava, il fragore dell’esplosione dietro di noi. Poi un secondo e un terzo. Ricordo solo che pigiai l’acceleratore a tavoletta, e non pensai a niente. Sentivo i lunghi fischi e le esplosioni. Scorsi la gente, ai lati della strada, che si buttava a terra. Io correvo, a più non posso.
Ci sono date che scompaiono. Una di queste è il massacro di un milione di rwandesi avvenuto 15 anni fa. Il blog sta raccontando quei fatti attraverso alcuni sopravvissuti. Vedaste Kaisabe aveva allora 24 anni e per lui il tempo si è fermato. Di chi sono le responsabilità del genocidio? A questa domanda non è ancora stata data una risposta. Sul blog di Beppe Grillo l’intervista a Vedaste Kaisabe.
Il 7 aprile 2009, il Premio Nobel per la letteratura Dario Fo ha ricevuto nella sua casa a Milano i candidati al Nobel della Pace 2010 Yolande Mukagasana e Pierantonio Costa, per esprimere il suo sostegno alla loro candidatura. Durante l’incontro, il Maestro ha mostrato loro numerosi dipinti che nel corso della storia hanno ritrattato il “massacro degli innocenti”. Inoltre, ha fatto loro dono di due sue opere, specialmente donate alla causa del riconoscimento internazionale del genocidio dei Tutsi e dei massacri degli Hutu moderati in Rwanda nel 1994.
Settima settimana: 19 maggio 1994 – 25 maggio 1994
19 maggio: Il commissario per i diritti umani dell’ONU, José Ayala Lasso, produce un rapporto in cui il Ruanda viene definito una tragedia dei diritti umani.
21 maggio: Un convoglio della Croce Rossa Internazionale con aiuti medici raggiunge Kigali.
22 maggio: Il FPR prende l’aeroporto di Kigali e il campo militare di Kanombe, ed estende il proprio controllo sulla parte settentrionale ed orientale del paese. Le forze governative continuano a fuggire a sud di fronte all’avanzata del FPR.
Il Sottosegretario Generale dell’ONU Iqbal Riza e il Consigliere Militare del Segretario Generale, il General-Maggiore J. Maurice Baril, iniziano la loro visita in Ruanda.
23 maggio: Il FPR irrompe nel palazzo presidenziale.
24 maggio: La Commissione ONU per i Diritti Umani tiene un meeting per discutere del Ruanda.
25 maggio: La Commissione ONU per i Diritti Umani nomina René Dégni-Ségui inviato speciale per i diritti umani in Ruanda. Il Ghana, l’Etiopia e il Senegal sottoscrivono un impegno per fornire ciascuno 800 truppe per le necessità dell’ONU in Ruanda. Lo Zimbabwe e la Nigeria sottoscrivono impegni simili poco dopo.
Feriti, ma vivi. Torturati, ma vivi. Umiliati, ma vivi. È in questo stato che ritrovo i miei figli. Tremo vedendoli avanzare verso me, come tre piccoli re magi cenciosi. Ci abbracciamo, piangiamo. Spérancie geme in un angolo della stanza. I suoi singhiozzi mi entrano nella carne come tanti segni della sua debolezza, del suo sentimentalismo senza vigore. Alla fine si alza, scompare nel giardino, lasciandomi alla mia dolorosa intimità di madre circondata dai suoi sfortunati figli.
Il Rwanda ha conosciuto cicli di violenza a carattere etnico fin dal 1959 quando i tutsi hanno cominciato ad essere uccisi o forzati a scegliere l’esilio a causa dei miliziani del MDR-PARMEHUTU composto per lo piu’ da elementi estremisti Hutu sostenuti dall’amministrazione coloniale e dalla Chiesa cattolica. Già a quell’epoca le donne costituivano un gruppo particolarmente colpito dalle milizie del partito MDR-PARMEHUTU che aveva da poco preso il potere per mezzo di cio’ che essi chiamavano una rivoluzione sociale ma che in realta’ non era altro che una caccia ai Tutsi.
Mentre erano intenti ad uccidere persone, bruciare case, spogliare dei beni e mangiare le vacche dei Tutsi, essi scandivano slogan che incitavano alla violenza, del tipo: “Inka zabo tuzazirya, abagore n’abakobwa babo tuzabasambanya” (Noi mangeremo le loro vacche, noi violenteremo le loro donne e le loro figlie).
E’ importante notare che le vacche in Rwanda costituivano il simbolo della ricchezza ed innalzavano i loro proprietari ad un rango sociale elevato. Esse erano dunque ragione di fierezza per i loro allevatori e oggetto di invidia per chi non le possedava. Per meglio ferire i Tutsi nel loro amor proprio, si dovevano colpire le loro vacche ed in fine per annientarli definitivamente si dovevano violentare le loro donne e le loro figlie sapendo che lo stupro è il crimine più degradante e più umiliante di cui una donna e la sua famiglia possano essere vittime. La vergogna e l’umiliazione causate dallo stupro vanno al di là della vittima diretta e coinvolgono anche la sua famiglia, in particolare i parenti, il marito ed i suoi figli.
Lo stupro utilizzato come arma del genocidio.
Nell’Aprile del 1994, il popolo ruandese, commettendo il Genocidio dei Tutsi che causò la perdita di un milione di vite in cento giorni, ha scritto la pagina più oscura della sua storia. Nel corso del genocidio, lo stupro è stato utilizzato come una delle armi più terribili e più effcicaci. Per questo la donna Tutsi è stata un vero campo di battaglia a seguito di violenze sistematiche di massa.
I pianificatori del genocidio hanno identificato lo stupro come una strategia infallibile per sterminare i Tutsi, obiettivo totalmente riuscito, poiché le vittime di questi stupri e violenze sessuali sono state in gran parte contaminate dall’HIV/AIDS ed altre violentate in presenza dei loro figli, non hanno potuto sopportare l’umiliazione e si sono suicidate. Essi hanno perciò chiesto alla popolazione Hutu non solo di uccidere tutti i Tutsi ma anche di violentare sistematicamente tutte le donne ed i bambini. Per tale motivo sono state violentate anche donne con più di sessanta anni così come bambini sotto i 10 anni. L’esempio più lampante è quello del tristemente celebre Jean Paul AKAYEZU, allora Sindaco del comune di Taba nella Prefettura di Gitarama (oggi divenuto Distretto di Kamonyi nella Provincia del Sud) il quale diceva ai miliziani INTERAHAMWE (Fazione armata del MRND, partito al potere durante il genocidio) che si trattava per loro dell’unica occasione per andare a letto con una donna Tutsi. Ad essi rivolgeva proposte del tipo: «Voi avete a vostra disposizione delle donne Tutsi, se voi non approfittate dell’occasione, non venitemi più a domandare a che cosa assomigli il loro sesso ». O ancora: «Voi non ignorate quanto queste donne siano fiere ed arroganti, voi sapete come esse vi abbiano sempre disdegnato, punitele andando a letto con loro »
Ricordiamo che Akayesu è stata la prima persona ad essere stata condannata dal Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda «TPIR » per i crimini di stupro e violenze sessuali.
In aggiunta agli stupri, diverse altre forme di violenza sessuale come torture e mutilazioni sessuali sono state perpetrate sulle vittime. L’orrore indicibile ha avuto luogo quando essi hanno obbligato dei giovani a violentare le proprie madri, i padri a violentare le proprie figlie e quando hanno tagliato i clitoridi delle donne. Tagliare il clitoride ad una donna ruandese significa colpire la sua dignità umana e ferirla profondamente nella sua autostima. Non c’è da meravigliarsi che alcune di loro abbiano deciso di porre fine alla loro vita!!!
Tutte queste violenze sono state commesse in publico con la benedizione e la partecipazione di alcuni elementi dell’amministrazione politica, dell’esercito ed anche di leader religiosi.
Questi atti ignobili venivano acompagnati da parole oscene che avevano come fine non solo quello di umiliare e di ferire la vittima, ma anche di colpire tutta la sua famiglia.
Questi atti ignobili hanno avuto conseguenze molto gravi di ordine fisico, psicologico e socio economico. Senza parlare delll’HIV/AIDS, le cui vittime oggi sono per la maggior parte morte.
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
M. Vestina
33 anni, superstite, Gahembe
V.M. – Ho saputo della morte di Habyarimana solo la mattina del 7 aprile. Ho chiesto a una vicina hutu perché c’erano dei gruppuscoli nel centro del villaggio. Mi ha risposto con aggressività. “Smettila di fare finta. Sai bene che il presidente è stato assassinato.” Ho avuto veramente paura. Per me, era la fine. Ripensando al 1992 mi sono calmata, pensando che avrebbero assassinato solo dei ricchi e degli intellettuali. Un anziano hutu, una volta amico di mio padre, è venuto a prendere me e i bambini, poiché ero vedova. I figli di quel vecchio erano degli Interahamwe. Sua moglie, una Tutsi, fu la prima a cacciarmi. Esageravo la situazione, diceva. Suo marito ha dovuto impormi. Suo figlio, il più pericoloso di tutti, mi ha preso e spinta con un’ascia. Sono caduta sulla schiena. Ho visto l’ascia sollevata sopra di me, pronta a colpire. L’immagine mi terrorizza ancora oggi. È il fratello più piccolo, eppure anche lui miliziano, che mi ha salvato la vita. Mi ha tenuta in ostaggio per tutto il periodo. Mi violentava regolarmente. Gli lasciavo usare il mio corpo, a patto che non uccidesse, i miei figli.
Y.M. – Non hai paura dell’AIDS?
V.M. – L’AIDS? Si, ho paura, ma lo vedo come una fatalità. Recentemente ho notato una macchia sulla mia gamba. Ho pensato subito che era l’AIDS. Ma a che serve preoccuparsi? In ogni caso, se ho l’AIDS, non ho i mezzi per curarmi. Spero solo di non morire prima che i miei figli siano grandi.
Y.M. – Pensi di fare il test?
V.M. – A che serve?
Y.M. – E non gliene vuoi a quest’uomo che ti ha preso con la forza?
V.M. – Certo che gliene voglio. Testimonierò contro di lui. Se mi ha preso in ostaggio, non era per amore. Era il suo modo di uccidermi.
MUKASARAMBU Béata
25 anni, superstite, Nyamirambo
Béata è mia nipote, ha accompagnato i miei figli fino alla fossa dove sono stati assassinati.
B.M. – Ma zia, come sei ingenua! Tutti gli Hutu del quartiere avevano una sola idea in testa, uccidere. Non salvare. Il giorno dopo la morte dei tuoi figli, la moglie di Camille mi ha detto “c’è un uomo là nella strada e vuole vederti. è un miliziano che forse viene ad ucciderti. Si chiama Bizimungu.” Ma io, volevo solo una cosa: la morte. Pensare di poter morire era per me un piacere. Mi sono precipitata verso il miliziano. Ma ha esitato. “No, ha detto, di sicuro non sei tu la Béata che cerco. Quella che cerco è una Hutu, la sorella di Véné. Senza dubbio non sei tu. Torno a chiedere se sei tu.” È andato via ed è tornato dopo un quarto d’ora. E ha detto “Vieni, andiamo.” Siamo andati e abbiamo preso la direzione della fossa. Camminavo felice. Arrivati vicino alla fossa, Gaspard, il tuo vicino, ha gridato “Bizimungu, portami quella ragazza. Deve entrare nella mia casa.” Bizimungu rispose: “Conosci Ruvubu, il più grande miliziano? È lui che mi ha mandato a prenderla. Se viene a sapere che l’hai presa per te, sarà la guerra tra voi. A te la scelta.” In quel momento ho capito che mi cercavano per violentarmi. Zia, non voglio più continuare. Parleremo del resto più tardi. Lo sai, la mattina stessa, mi avevano messo una granata in bocca per obbligarmi a dire dove ti eri nascosta. Dopo quella granata, sono un po’ matta. A volte credo ancora che stia per esplodere. Mi succede di rimpiangere il fatto che non sia mai esplosa.
Anastasie I.
49 anni, superstite, Gahembe (Bugesera)
A.I. – Sulla collina dove eravamo fuggiti, gli uomini si battevano contro gli assassini e le donne e i bambini raccoglievano dei sassi per aiutarli. Nella mischia, un miliziano mi ha detto: “tu sei come una madre per me, vorrei poterti nascondere ma l’ultimo giorno dei Tutsi è venuto, devono tutti morire”. Mi ha tenuto tre giorni nel suo bananeto perché aveva paura di tenermi in casa; poi mi ha portata in mezzo a dei cadaveri sulla collina della resistenza. Là abbiamo passato la notte, mio figlio ed io. Gli assassini sono venuti, mi hanno colpito e hanno ucciso mio figlio. Uno di loro ha detto: “Questa vecchia ci ha curati tutti, se la uccidiamo, ci porterà male. Lasciamola in mezzo ai morti. morirà di fame; i cani e i nibbi finiranno il lavoro”. Se ne sono andati. Uno degli assassini è tornato: “vieni a casa mia, se mia moglie accetta, ti nascondo”. Sua moglie ha rifiutato, mi ha messa nella boscaglia e mi portava tutti i giorni dei semi di sorgo; poi, quando il FPR è arrivato, mi ha avvisato: “Anastasie, vengo a salutarti, non posso più proteggerti, non ti perdere d’animo e fai attenzione ai fuggiaschi, uccidono sul loro passaggio”.
Y.M. – Hai figli?
A.I. – Sì, tre. Quattro sono morti. La più grande è stata violentata e ha un bambino. Ho veramente molte ferite sul corpo, le mie cicatrici stanno scomparendo ma le ferite del cuore non si cicatrizzeranno mai.
Y.M. – Cosa pensi delle ONG e della Chiesa cattolica?
A.I. – C’è stato del disaccordo tra la Chiesa cattolica e il nostro governo. Quest’ultimo voleva che la Chiesa di Nyamata diventasse un monumento commemorativo del genocidio per lasciarci riposare gli scheletri. Per la Chiesa era un peccato. Sarebbe più grave tenere queste ossa nella chiesa piuttosto che aver lasciato uccidere là degli esseri umani? La Chiesa, non voglio più sentirne parlare … i religiosi bianchi sono stati rimpatriati, i religiosi ruandesi sono stati abbandonati. È successo lo stesso con le ONG.
Oggi, molti assassini si rifugiano nelle sette e fanno finta di avere la fede.
Commenti, notizie, testimonianze e aneddoti in pillole
raccontate da Daniele Scaglione, capo del dipartimento
campaigning di ActionAid Italy
Un giorno, a genocidio ancora in corso, Romeo Dallaire ricevette una telefonata dagli Stati Uniti. A cercare al telefono il capo dei caschi blu in Rwanda era un funzionario governativo, che gli fece alcune domande.
“Generale, quante persone sono state ammazzate oggi?”
Dallaire abbozzò una risposta, parlando di varie migliaia di vittime.
“E quante nella scorsa settimana?”
Dallaire ipotizzò ancora una risposta, ma quando il funzionario gli chiese quante persone immaginava che sarebbero morte nella settimana a venire, si spazientì.
“Che se ne fa di queste statistiche?”, chiese a sua volta all’interlocutore.
“Veda, generale, il mio governo sta prendendo seriamente in considerazione l’opportunità di intervenire in Rwanda a difesa dei civili”, spiegò il funzionario USA. “Ma come lei certo potrà capire, la nostra è una grande democrazia, e nel prendere decisioni importanti è necessario tenere conto del parere dei nostri cittadini. Ora, secondo un nostro sondaggio – spiegò l’uomo a Dallaire – il cittadino medio degli Stati Uniti considera la morte di un nostro soldato un fatto di gravità equivalente alla morte di 85.000 rwandesi. Come lei capirà, dunque – concluse il funzionario – prima di intervenire dobbiamo avere disposizione tutti i dati possibili”.
Alla fine, gli Stati Uniti d’America non intervennero, né per proprio conto né tramite le Nazioni Unite.
La colonna viaggiava lenta verso il confine. Lo scenario intorno a noi era terribile e impressionante. Dalle rosse colline punteggiate di banani salivano decine di colonne di fumo: erano case che bruciavano, ovunque intorno a noi. Quello che stava accadendo era al di là di ogni immaginazione. Tanto più incomprensibile per il fatto che quella era una regione tradizionalmente ostile a Habyarimana, il presidente ucciso. Al potere erano gli hutu del Nord. Quelli di Butare erano in opposizione al governo tanto quanto i tutsi. Ma ormai in Ruanda governava la follia. Erano bastate poche pattuglie di soldati ben addestrati per organizzare scientificamente la caccia all’uomo.
Le barriere erano numerosissime. Ai posti di blocco trovavamo gente armata nei modi più disparati, dai kalashnikov alle lance, dalle bombe a mano agli archi e ai machete. La situazione era già fuori controllo. Si uccideva per l’odio etnico, certo, sobillati dalla propaganda. Ma anche per interesse personale. Eliminare un tutsi significava anche impossessarsi della sua casa, delle sue capre, degli infissi e delle pentole. Conoscevo i ruandesi da trent’anni, ma non avrei mai immaginato che si sarebbe arrivati a questo.
Si susseguivano le curve, le colline, i barrage. La vastità della strage a cui stavo assistendo mi lasciava attonito. Osservavo quella barbarie pensando che millenni di civilizzazione e di convivenza erano solo un sottile strato di vernice sulla capacità dell’uomo di commettere atrocità, e di godere della sofferenza inflitta. E non era questione di «selvaggi africani». In Bosnia, nella civilissima Europa, in quegli anni stava accadendo la stessa cosa.
Ero costernato a pensare che anche i miei amici erano stati contagiati dallo stesso germe di pazzia: c’era chi, in quei giorni, stava cercando di salvarsi, ma altri erano fra i massacratori. Molti di loro, prima, sedevano allo stesso tavolo del Rotary club di Kigali, e tante volte avevamo cenato e conversato insieme. Ora alcuni davano la caccia agli altri. Uno di loro, il segretario generale del partito Mrnd, oggi è sotto processo per genocidio ad Arusha, presso il Tribunale penale internazionale. Prima del 6 aprile dirigeva la corale della cattedrale di Kigali ed era uno dei cattolici più in vista. Dopo, era diventato uno dei più accaniti organizzatori dei massacri.
Questo stava accadendo in Ruanda. Il presidente del Rotary, ucciso nei primi giorni a Kigali, probabilmente era finito vittima delle squadre organizzate dall’altro rotariano, il direttore della corale della chiesa. Entrambi miei cari amici.
Tutto sommato era meglio non pensare. Era meglio concentrarsi nella guida. Eravamo quasi al confine. Dovevo tornare a mostrarmi sereno e sicuro di me di fronte all’addetto all’immigrazione: dovevo convincerlo a far passare 51 persone, di cui 34 stranieri, tra civili e religiosi, e 17 ruandesi.
“È la festa del 25 aprile, ironia della sorte”, pensavo fra me e me. Già, per noi italiani festa della liberazione. Ero di nuovo in viaggio verso il confine ruandese. Destinazione: Nyanza. Ogni tentativo di entrare in contatto con i padri rogazionisti era stato inutile. Il telefono squillava sempre a vuoto. Cosa avrei trovato alla missione dei rogazionisti?
Era pieno di interahamwe intorno all’orfanotrofio. L’ultima barriera si trovava a non più di cinquanta metri dal cancello d’entrata. Lo varcai, lentamente, scesi e mi guardai intorno. Non avevo mai visto nulla del genere nella mia vita. Fu uno shock tale da segnarmi per sempre. Un nugolo di bambini mi si fecero attorno. Ma nel silenzio più irreale. Mi guardavano, e non dicevano una parola. Lo sguardo vuoto, senza un sorriso, senza fare niente. In tutti gli anni passati in Africa non mi era mai successo. Il bambino africano ti corre addosso, ride e gioca, fa chiasso e ti salta attorno. Sempre. Invece qui la loro coscienza era impregnata del dramma che avevano vissuto in famiglia e che continuava a consumarsi appena fuori dal recinto dell’orfanotrofio.
Il silenzio era completo. E m’è rimasto addosso. Da allora, non posso più guardare un bambino senza cercare di farlo ridere. Quell’immagine mi si è stampata nell’anima: un mare di bambini intorno alla macchina, tanto che riuscivo a malapena ad aprire la porta, ma nel silenzio assoluto. E tutti quei visi mi fissavano, corrucciati e tristi. Quanti erano? Trecento? Quattrocento? Continuavano ad affluire, ogni giorno, singoli e a gruppi. Alcuni venivano condotti là da adulti che li trovavano a vagare da soli nei dintorni di Nyanza. In qualche caso erano stati gli stessi soldati a portarceli, magari dopo aver sterminato il resto della famiglia, perché non avevano avuto il coraggio di uccidere anche i bambini piccoli.
Mi vennero incontro don Vito e padre Eros. Era la prima visita «amica» che ricevevano dal 6 aprile, dopo tre settimane di isolamento.
I due religiosi erano veramente col morale a terra, avviliti e sfiduciati. «I bambini sono troppi», mi disse padre Eros. «Non possiamo tirare avanti a lungo. Non c’è abbastanza da mangiare». Erano convinti che ogni giorno poteva essere l’ultimo. «Quando questa gente alle barriere intorno si renderà conto di quanti tutsi ci sono nell’orfanotrofio, sarà finita per tutti», aggiunse don Vito.
Sapevo che avevano perfettamente ragione. Tuttavia reagii un po’ rudemente. Dissi loro che bisognava prendere subito delle iniziative. «Innanzitutto, troviamo il modo di comunicare: d’ora in poi mettete sempre un bambino vicino al telefono. Lui risponderà in lingua kinyarwanda. Se riconosce l’interlocutore corre a chiamare uno di voi, se no dice che ha sbagliato numero».
Poi suggerii loro di muoversi, di uscire ogni giorno dall’orfanotrofio. Dovevano abituare i miliziani delle barriere alla loro presenza e al fatto che la loro macchina andava e veniva normalmente. Infine, insistetti sul fatto che dovevano avere contatti regolari con le autorità, con l’esercito, con il prefetto.
Andai subito dopo al comando militare e ottenni che di notte fossero piazzati due soldati al cancello, per fare da deterrente a eventuali incursioni notturne degli interahamwe. In ogni caso, arrivando di sera, i due gendarmi non si sarebbero resi conto della popolazione che affollava l’orfanotrofio, né della presenza di tanti bambini tutsi.
Era inspiegabile che non fosse ancora stato attaccato l’orfanotrofio. Penetrare all’interno sarebbe stato facilissimo: non c’era muro di cinta, a parte il lato del cancello. Se qualche gruppo di interahamwe avesse voluto entrare, sarebbe bastato tagliare in qualunque punto la siepe, l’unica protezione che circondava l’ampia superficie della missione.
Eppure non accadde. E nonostante l’afflusso quotidiano di bambini e il loro numero sempre più elevato, l’organizzazione della vita nell’orfanotrofio appariva incredibilmente efficiente. Dalle pulizie delle camerate, alla cucina, al lavaggio delle stoviglie, tutto veniva svolto regolarmente dagli stessi ragazzini, che eseguivano le disposizioni dei più grandi e dei giovani adulti a cui i missionari avevano affidato la responsabilità di gestire le necessità quotidiane. Mi sembrava un miracolo di concordia, una minuscola isola di pace dentro l’infernale bolgia della violenza e della guerra.
Stavo per andarmene quando un piccolo di cinque o sei anni mi prese per mano e volle che lo seguissi. Mi lasciai guidare, incuriosito. Non disse una parola. Mi condusse semplicemente in tutte le stanze dove si trovavano dei bambini ammalati. Poi, sempre per mano, mi riportò alla macchina.
Partii con un nodo alla gola. Da quel momento in poi, la salvezza di quei ragazzini diventò per me una sorta di ossessione. Era necessario portarli fuori dal Paese. Ma era un’impresa quasi impossibile. Come si potevano trasferire 400, forse 500 bambini per decine di chilometri? La loro vita era veramente appesa a un filo.
«Voi che fate? Venite via?». Avevo rintracciato due italiani che si trovavano ancora a Gikongoro, una cittadina a ovest di Butare. Uno dei due era sposato con una donna burundese, originaria di Bujumbura. «Sì, ma non voglio andare in Europa. Devo riportare mia moglie in Burundi». Erano rimasti a sorvegliare il cantiere dell’Astaldi. «Gli interahamwe ci hanno chiesto di dar loro una mano per sotterrare i morti con le scavatrici. Abbiamo risposto che, se volevano, le prendessero pure, le macchine, non potevamo impedirlo, ma che non chiedessero a noi di farlo. Costa, è una cosa schifosa. Sono venuti ad ammazzare i nostri dipendenti tutsi, qui, nel garage».
Ripartii per Bujumbura. Andai a prelevare tre religiose che mi avevano segnalato di portare via al più presto. A Butare, durante una sosta in città, mi capitò di udire un gruppo di miliziani che stava raccontando di una «battuta di caccia» appena terminata. Avevano individuato dei tutsi nascosti, ed erano andati a eliminarli. Raccontavano l’impresa e se ne vantavano.
Ormai si conviveva con la morte di continuo. Si vedevano i cadaveri abbandonati lungo le strade. E accanto a ogni barriera c’era una fossa comune. Anche a don Vito Misuraca era accaduto: uno dei suoi collaboratori era tutsi. Durante la fuga da Kigali, a un posto di blocco lo avevano tirato giù dalla macchina e ammazzato. Davanti a lui e ai suoi trenta bambini. Quale trauma avrà provocato nelle loro menti e nella loro psiche un episodio tanto drammatico?
Ma era né più né meno ciò che succedeva a tutte le ore in tutto il Ruanda, in quei terribili cento giorni.
BOLLETTINO DEL GENOCIDIO Sesta settimana: 12 maggio 1994 – 18 maggio 1994
13 maggio: Il segretario generale dell’O.N.U. Boutros Boutros-Ghali suggerisce al Consiglio di Sicurezza il piano originale del generale Dallaire di paracadutare 5.500 caschi blu a Kigali.
16 maggio: Il FPR taglia la strada tra Kigali e Gitarama.
17 maggio: Il Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. vota la risoluzione n. 918 che approva il dispiegamento di 5.500 soldati in Ruanda, ma non ci sono truppe disponibili. La risoluzione prevede anche un embargo sulle armi al Ruanda. Il rappresentante della Francia, Jean-Bernard Mérimée, aveva tentato di ostacolare tale embargo, sostenendo la posizione del rappresentante del GIR, (Governo ad Interim Ruandese) rifugiatosi dal 12 aprile a Gitarama in seguito all’avanzata dell’FPR.
Annuncio al GIR, con messaggio del secondo segretario all’ambasciata del Ruanda al Cairo, della consegna di 35 tonnellate di armi (munizioni e granate) per un ammontare di 765.000 dollari. Tali documenti riportano una transazione conclusasi a Parigi.
Aprile – giugno: Rifornimento delle FAR con armi e munizioni tramite alcuni aerei Boeing 707, i quali atterravano a Goma, nello Zaïre. Secondo fonti del posto le consegne venivano pagate dalla Francia.