Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
H. Grégoire, detto Mandela (a causa di 25 anni di prigione),
54 anni, superstite, Nyamata
G.H. – A 18 anni, sono stato arrestato senza motivo il 22 dicembre 1963, in seguito all’attacco dei ribelli tutsi nel Bugesera, dove abitavo. Era domenica. Sono stato trasferito a Kigali negli uffici della polizia. Eravamo circa 850, rinchiusi in alcune stanze così piccole che non potevano nemmeno sdraiarci. Juvénal Habyarimana è arrivato con una lista di ventitré persone. Queste persone sono state torturate tutta la notte e uccise all’alba. Non abbiamo avuto niente da mangiare fino a Natale, solo una volta una specie di fou-fou che assomigliava a una poltiglia, nella quale i militari buttavano la cenere delle loro sigarette e tanto calda da poterla prendere solo nelle nostre scarpe. Il giorno di Natale, siamo stati condotti alla prigione 1930 dove siamo rimasti fino a marzo. Molti sono stati liberati, ma 35, tra cui io, sono stati condannati a morte. Ma Monsignor Perraudin, che era venuto ad amministrarci l’estrema unzione, è intervenuto in nostro favore presso il presidente Kayibanda, il suo migliore amico. Per una volta che Perraudin faceva una buona azione! In marzo 1965, dopo molte procedure di appello tutte senza successo, siamo stati trasferiti alla prigione di Ruhengeri dove sono rimasto fino al 1973, sempre senza sapere perché. Al momento del colpo di stato di Habyarimana, siamo stati trasferiti nella prigione di Gitarama, dove le nostre condizioni di detenzione erano terribili: celle inondate, pagliericci marci. Passavamo notti e giorni interi appollaiati sui nostri lettini di ferro. Un giorno, hanno fatto l’errore di aprire le celle. Ci siamo rivoltati e abbiamo rifiutato di ritornarci. Siamo stati gettati in una cantina. La nostra pena di morte è stata infine tramutata in ergastolo. E nel 1985, siamo stati rimessi in libertà e condannati all’obbligo di soggiorno nel nostro Bugesera natale. Avevo 40 anni, avevo passato tutta la mia gioventù in prigione. E nel 1994, siamo stati il bersaglio del genocidio. Credo di essere il solo sopravvissuto dei 35 che erano con me.
Y.M. – Hai una moglie a casa?
G.H. – Una moglie? Cosa offrirei a una moglie? Quando non si ha avuto gioventù, non si ha felicità da offrire. E poi, far crescere dei bambini sotto la continua minaccia di diventare orfani prima o poi?
Marc N.
54 anni, guardiano del sito di Ntarama, militare hutu che ha protetto dei Tutsi
M.N. – Dopo la caduta dell’aereo presidenziale, ci sono state delle voci secondo le quali erano stati i Tutsi ad abbatterlo. I miei vicini tutsi si sono rifugiati a casa mia, pensando che avessi un’arma e che avrei potuto proteggerli. Ma io non avevo armi perché mi avevano appena comunicato il mio pensionamento, con il pretesto che avevo rifiutato il genocidio.
Y.M. – Il genocidio era stato pianificato anche all’interno dell’esercito?
M.N. – Certo! Nessun ufficiale dei FAR può dire di non essere stato informato della pianificazione del genocidio.
Y.M. – Non hai avuto paura di proteggere delle persone?
M.N. – Paura? Una fifa nera, sì! Quando hanno attaccato casa mia, ho fatto uscire tutti, erano forse una ventina; ho tenuto solo le donne anziane e i bambini. Davanti ai miliziani ho giurato sotto la foto del presidente che non potevo nascondere dei nemici. È così che tutti quelli che erano a casa mia si sono salvati.
Y.M. – Cosa pensi dell’ONU?
M N. – L’ONU ci ha abbandonati. Ho visto qualcosa di sconcertante tra ottobre e novembre 1994. Dei Caschi blu sono venuti in elicottero a prendere dei teschi al sito di Ntarama. Senza dubbio con l’obiettivo di cancellare le tracce del genocidio. Ho immediatamente informato le autorità locali.
Claire K.
22 anni, superstite, Kicukiro (Kigali)
Siamo stati spinti con la forza sulla collina di Nyanza dove siamo stati aggrediti per ore, con delle granate prima e poi con dei machete e delle pistole. Ho visto saltare il cervello di una bimba al mio fianco … Ero coperta di ferite e avevo un coltello nella gamba. Facevo la morta mentre i miliziani finivano le persone. Ho sentito la mia sorellina che mi chiamava “Claire, Claire, non mi abbandonare, sono ancora viva”. I miliziani l’hanno portata via, non l’ho mai più rivista. Un assassino si è piegato su di me dicendo: “Penso che questa sia ancora viva. Mi ha calpestata con le sue scarpe chiodate. Un altro l’ha interrotto dicendo: “Imbecille, è così che controlli che siano morti? Guarda …” E all’improvviso ho sentito un grosso peso sulla testa e sono svenuta. Quando mi sono svegliata, un uomo stava in piedi di fianco a me e cercava di riconoscermi”. Mi ha chiesto cosa faceva mio padre. “Mio padre? Lavora al campo militare. – Allora, sei una dei nostri. Ti salverò.” Altre, donne sono state salvate come me; ci hanno riunito e sono stata affidata ad un militare. Squadrandomi, mi ha detto: “Hai l’età di mia figlia. Nonostante tu sia Tutsi, perché‚ si vede, non ho la forza di ucciderti‚ di violentarti. Non voglio il tuo sangue sulle mie mani. Senza dubbio sarai uccisa, ma non da me”. E dicendo queste cose, se ne è andato.
Una donna anziana mi ha dato un perizoma e sono andata a nascondermi in un piccolo chiosco dove c’era un rubinetto pubblico. Quando il FPR è arrivato, un militare ci ha portato dell’acqua calda per lavarci. Due minuti dopo, mentre si girava, è morto sotto i nostri occhi colpito da una pallottola in pieno petto.
Oggi, non ne posso più di incontrare assassini. Ne ho abbastanza di vivere nella paura. Ho voglia di lasciare il Ruanda, questa terra dove gli assassini corrono liberamente.
Just after noon v.a alcohol recovery ward oklahoma city
this day two other indians were brought
in from the county jail
gaunt and without light they walk
unsteadily down the hall
i envision a photograph of 1869
three captive cheyennes wrapped in army
blankets standing near horses at camp
supply oklahoma
wordless and lost in this america that has
destroyed so many
i think of ortiz
and gogisgi
and ask a blessing for their way
we are the true veterans of this land
Subito dopo mezzogiorno al reparto di
recupero alcolisti del v.a. Oklahoma City
oggi hanno portato altri due indiani
dal carcere della contea
magri e spenti
camminano incerti per la sala
ho in mente una fotografia del 1869
tre cheyenne prigionieri avvolti nelle coperte dell’esercito in piedi vicino ai cavalli a camp supply in oklahoma
senza parole e perduto in questa america
che ne ha sterminati tanti
penso a ortiz
e a gogisgi
e chiedo una benedizione per la loro vita
noi siamo i veri veterani di questa terra
Che ne era stato degli italiani che vivevano nei dintorni di Butare? Da quella zona, nel Sud del Ruanda, non erano giunte molte notizie. Trasferitomi a Bujumbura, la capitale del Burundi, non mi sarebbe stato difficile risalire la strada che s’inerpica tra i monti e penetra nella parte meridionale del Ruanda. È un viaggio abbastanza agevole, di tre o quattro ore, su strada asfaltata, nella regione più bella e impervia delle montagne.
A Buja, come tutti chiamano la capitale burundese, abitava mio fratello Arturo che mi aveva offerto ospitalità. Mariann, Matteo e io ci eravamo spostati da lui, Olivier e Caroline erano tornati in Belgio.
Butare, mi dissero, era ancora calma. Il motivo lo capii in seguito. Anche per questo, molte persone fuggite da Kigali si erano dirette da quella parte.
Riguardo ai miei compiti di console, a quel punto sarei potuto starmene a prendere il sole sul lago Tanganyika. Infatti, gli altri colleghi e soprattutto gli ambasciatori, che certamente avevano doveri maggiori dei miei, erano tutti rientrati nei rispettivi Paesi. Alcuni avevano lasciato subito il Ruanda, nei primissimi giorni. Altri erano rimasti solo il tempo necessario a far evacuare con gli aerei o gli elicotteri i propri connazionali. Insomma avrei potuto considerare concluso il mio lavoro.
D’altro canto, come imprenditore, a differenza dei diplomatici, in Ruanda stavo lasciando tutto ciò che avevo realizzato. Avevo quattro ditte a Kigali che stavano andando in malora. Era un valore di qualche milione di dollari. Dovevo salvare il salvabile. È stata questa la prima molla che mi ha spinto ad andare avanti? O è stato un tarlo più profondo? E i bambini? Quanto hanno pesato loro nel mio crescente coinvolgimento? Non ero mai riuscito ad avere notizie dell’orfanotrofio dei rogazionisti di Nyanza. Sapevo che dovevano esserci due padri italiani e circa 150 bambini, di entrambe le etnie. Erano al sicuro? E fino a quando li avrebbero rispettati? Mi arrivavano notizie indirette che altri bambini andavano dai missionari in cerca di protezione. Ma quanti? Dall’inizio della guerra, in soli quindici giorni, sapevo che erano diventati più di 200. I rogazionisti avevano riserve tali da sfamarli tutti?
«Maggiore, sto andando a Butare. Volevo che ne fosse informato». «Va bene, Costa. Non incontrerà particolari problemi. La situazione per ora è tranquilla». Mi ero fermato al comando burundese di Kayanza, l’ultima cittadina prima della frontiera. L’ufficiale era una brava persona. «La gente», aggiunse, «passa senza difficoltà, i commercianti stanno iniziando ad andare avanti e indietro dal Burundi per approvvigionarsi».
Al confine ruandese c’era un doganiere un po’ rognoso. Era puntiglioso e faceva troppe domande. Mentre stavamo discutendo e sbrigando le formalità, arrivò un commerciante di Butare che conoscevo. Mi raccontò che andava a Bujumbura a comprare qualche rifornimento, e mi offrì la scorta del militare che lo aveva accompagnato fino a quel momento. Questo mi convinse definitivamente a proseguire: avevo qualcuno che poteva aiutarmi nei passaggi alle barriere.
La strada – una quarantina di chilometri – era deserta, la città pure. Non c’erano soldati in circolazione. Andai alla prefettura, poi al comando militare: stranamente anche là non c’era nessuno. In seguito venni a sapere che tutti, sia le autorità civili che militari, erano riuniti alla sede del Mrnd, il partito del defunto presidente Habyarimana. Il suo successore ad interim, Théodore Sindikubwabo, che avevano messo a guidare una sorta di governo di transizione per gestire l’emergenza, stava pronunciando un discorso, che in seguito divenne tristemente famoso. Stava incitando «a finire il lavoro cominciato». «I ruandesi», spiegava, «sono degli agricoltori, quando cominciano a lavorare la terra arrivano fino alla fine del campo e tagliano tutto quello che devono tagliare».
Raggiunsi una missione italiana dei missionari rogazionisti. Vi trovai padre Tiziano Pegoraro. Gli spiegai di far girare la voce che sarei tornato due giorni dopo. Chi voleva uscire dal Paese doveva farsi trovare là.
Sulla via del ritorno, mi resi conto, appena uscito dalla città, che era cambiato qualcosa: ai barrage non c’erano civili ma militari, e facevano molte storie per farmi passare. Erano duri e incattiviti. Capii che quel meeting aveva cambiato radicalmente l’atteggiamento dell’esercito. Girai l’auto e tornai al comando: il colonnello mi concesse un militare di scorta.
La situazione era mutata: il clima era plumbeo, e durante il viaggio sentii diverse sparatorie sulle colline circostanti.
Appena passata la sbarra del confine ruandese, restai di sasso: c’era una scia di macchie di sangue, e delle orme che le avevano calpestate. Le macchie proseguivano fino oltre il ponte che fa da «terra di nessuno» fra Ruanda e Burundi. Quelle chiazze raccontavano una storia chiarissima, accaduta al massimo un paio d’ore prima del mio passaggio: un grosso gruppo di tutsi aveva cercato di forzare la frontiera. Si erano fatti sparare addosso per passare di là. Potevano essere 300, forse 400 persone. Con la forza del numero una buona parte era riuscita a passare il confine. Rimasi a fissare a lungo quelle macchie, mentre piano piano transitavo oltre il ponte.
Era il 19 aprile. Di ritorno da Butare passai alla base di Médecins sans frontières e a quella della Croce Rossa Internazionale. Entrambe le organizzazioni avevano posto i loro quartieri generali a Bujumbura. Riferii della situazione dei loro uomini presenti a Butare. Mi guardarono stupefatti quando dissi che venivo da Butare, consideravano una pazzia andarci. Ma il fatto che fossi potuto tornare senza grossi problemi fece capire anche a loro che era possibile farlo. Insomma, il buon esito di una missione spingeva gli altri a rischiare un po’ di più.
Così, due giorni dopo partimmo insieme, io e i ragazzi di Médecins sans frontières. Loro andarono all’ospedale di Butare, e scoprirono che proprio quella notte una pattuglia di militari era penetrata nell’ospedale e aveva ammazzato alcuni pazienti. Ormai anche nel Sud stava cominciando la mattanza. Dovetti aspettare qualche giorno prima di tentare un’altra spedizione in zona: arrivavano notizie che i massacri erano in corso, ed era divenuto assai pericoloso avventurarsi nella zona.
Decisi che avrei operato così. Mi sarei vestito sempre allo stesso modo per essere riconoscibile: pantaloni scuri, camicia azzurra, giacca grigia. Distribuite nelle tasche – e sempre nello stesso posto – avrei messo banconote da 5000 franchi ruandesi (circa 20 euro), da 1000, da 500 e, infine, da 100 franchi, per essere sempre pronto a estrarre la cifra giusta, senza dover contare i soldi: la mancia dev’essere data nella misura giusta, se dai troppo ti ammazzano per derubarti, se dai troppo poco non passi. Nella borsa avrei avuto costantemente con me alcuni fogli con la carta intestata del consolato d’Italia, e sul fuoristrada ci sarebbero state le immancabili bandiere italiane. Quanto alla durata delle incursioni oltre confine, avrei evitato il più possibile di dormire in Ruanda e di viaggiare col buio.
C’erano lunghe file: da un lato una quarantina di europei, dall’altra decine di ruandesi e altri africani; gli uni e gli altri cercavano di ottenere il permesso di lasciare il Paese. Alla prefettura di Butare regnava la confusione. Ormai tutti erano terrorizzati dalla piega che prendevano gli avvenimenti. Mi misi in coda, pazientemente, per essere ricevuto dal prefetto.
A un certo punto s’aprì la porta, il prefetto mi fece segno di entrare e richiuse la porta. Non mi conosceva. Spiegai che ero il console italiano e che volevo evacuare i miei connazionali. D’improvviso mi si avvicinò, mi abbracciò e si mise a piangere: «Non mi piace quello che sono costretto a fare», continuava a ripetere. Era un giovane, Sylvain Nsabimana, rientrato da soli due anni dalla Danimarca, dov’era andato a studiare.
Il suo predecessore era un tutsi, si chiamava Habyarimana come il presidente. L’avevano eliminato – lui e tutta la sua famiglia – il giorno stesso del discorso del presidente ad interim Sindikubwabo che aveva cambiato i destini della città. E quel ragazzo si era trovato improvvisamente trasferito dal suo impiego nell’azienda nazionale del caffè a capo della prefettura. Capii perché Butare era rimasta tanto a lungo tranquilla: era merito di quel prefetto tutsi. Finché aveva potuto, aveva calmato gli animi ed evitato i massacri.
Col nuovo prefetto non ebbi mai alcun problema. Mi agevolò in tutti i modi. Ogni volta che andavo da lui con una lista di nomi di persone da portare fuori dal Ruanda, lui autorizzava senza fiatare. Oltre alla sua firma, però, serviva anche quella del comando militare. Ed era una questione più complicata, bisognava sempre promettere qualcosa in cambio.
Compilammo la lista. La prima. Ci misi tutti gli europei che aspettavano il «via libera». Ma ci aggiunsi anche alcuni zairesi, malgasci, tanzaniani e alcuni ruandesi. Decidemmo di organizzare due colonne diverse di automobili, e di partire per Bujumbura a due ore di distanza gli uni dagli altri, per farci notare meno.
In quel momento venni a sapere due cose: la prima, che don Vito Misuraca, il missionario responsabile dell’orfanotrofio di Kigali di cui non avevo più notizie, era riuscito a uscire dalla città e fra mille difficoltà aveva raggiunto l’orfanotrofio di Nyanza; la seconda, che sia lui che il rogazionista responsabile di Nyanza, padre Eros Borile, avevano deciso di non venire con noi in Burundi. «Inutile che li chiami», mi spiegò padre Tiziano Pegoraro, «non rispondono al telefono. Lo lasciano squillare a vuoto per far credere che all’orfanotrofio non c’è più nessuno». «Stanno bene?», domandai. «Per ora sì. Non hanno avuto alcun problema».
Ma quanto poteva durare? La situazione, nella regione, stava precipitando. Il governo ruandese, proprio perché la zona era sempre rimasta tranquilla, aveva mandato a Butare diverse squadre di militari della Guardia presidenziale, i fedelissimi del regime. Di giorno in giorno, dove arrivavano le pattuglie di soldati iniziavano i massacri. Il meccanismo era sempre lo stesso: coinvolgevano la popolazione in modo che nessuno potesse più proclamarsi innocente. O partecipavi al genocidio, o eri connivente con i tutsi, e quindi da eliminare.
L’acqua scivola sul mio corpo. Bevo a grandi sorsi l’acqua della doccia. Sono una donna libera, posso lavarmi. Libera, ma solo di lavarmi. Non so più niente, né domande né risposte. Forse tra tre minuti i miliziani arriveranno con Jean, mi strapperanno nuda alla mia doccia, mi violenteranno e mi uccideranno. Sono rassegnata a morire, ma non a essere violentata. E se devo morire, che almeno muoia pulita.
Mezza pagina di Daniele Scaglione
Commenti, notizie, testimonianze e aneddoti in pillole
raccontate da Daniele Scaglione, capo del dipartimento
campaigning di ActionAid Italy
5 maggio: Lancio della direttiva presidenziale n. 25 sulla politica di peacekeeping che limita il coinvolgimento militare degli U.S.A. nelle operazioni di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e sancisce di fatto il non-intervento degli U.S.A. in Ruanda.
Madeline Albright, rappresentante permanente degli Stati Uniti presso l’ONU, testimonia in un’audizione del Congresso sul finanziamento dei programmi ONU:
“Vorrei solo dirvi che nella questione del Ruanda, a mio avviso il Consiglio di Sicurezza e le Nazioni Unite hanno perso il treno. Adesso siamo di fronte ad una situazione ben oltre ciò che chiunque si sarebbe aspettato. E come ho già detto in precedenza, è successo che eravamo in una situazione in cui pensavamo che una forza delle Nazioni Unite poco numerosa fosse in grado di affrontare le questioni della regione, e poi all’improvviso con l’abbattimento dell’aereo coi due presidenti, si è creata una valanga. E quindi ora è difficile giudicare se quelle specifiche operazioni fossero state impostate correttamente”.
Anthony Lake, Consigliere Nazionale per la Sicurezza, dichiara in una conferenza stampa sulla “Direttiva Presidenziale n. 25″:
“Quando mi sveglio ogni mattina e guardo le notizie e le storie e le immagini in televisione di questi conflitti, voglio lavorare per porre fine a ogni conflitto. Voglio lavorare per salvare tutti i bambini là fuori. E so che il presidente ed il popolo americano fa lo stesso. Pero né noi né la comunità internazionale ha le risorse e il mandato per farlo. Perciò dobbiamo fare delle distinzioni. Dobbiamo porre domande difficili su dove e quando saremmo in grado di intervenire. E la realtà è che spesso non siamo in grado di risolvere i problemi dei popoli, non potremo mai costruire le loro nazioni per loro…”.
A Kampala, il presidente ugandese Museveni accusa il governo ruandese ad interim di genocidio in Ruanda.
6 maggio: Ad un mese esatto dall’inizio del genocidio il commissario per i diritti umani dell’ONU, José Ayala Lasso, dichiara che sta per andare in Ruanda.
11 maggio: Nel corso di una riunione informativa del Dipartimento di Stato americano, viene chiesto a Mike McCurry:
“Questo governo è stato in grado di determinare se gli atti commessi in Ruanda dopo il 6 aprile costituiscono genocidio?”
La sua risposta è: “Non mi risulta siano state raggiunte delle determinazioni legali in merito.”
L’opera « Ruanda. I media del genocidio » è stata redatta su domanda dell’UNESCO, da Reporters Senza Frontiere, in collaborazione con una unità del Centro Nazionale di Ricerca Scientifica di Parigi.
L’UNESCO, allarmata per l’utilizzo dei media nell’incitamento a commettere direttamente e pubblicamente il genocidio in Ruanda, ha affidato agli autori il compito di analizzare le trasmissioni delle radio nonché gli articoli e le caricature apparse nella stampa, che incitavano all’odio razziale
Gli autori hanno esaminato con cura 74 cassette delle trasmissioni della “Radiotelevisione libera delle Mille colline” (RTLM) registrate tra il mese di ottobre 1993 ed il mese di luglio 1994 e di Radio Rwanda nel mese di aprile 1994, la serie quasi completa del bimestrale Kangura a partire dal mese di maggio 1990 e sei esemplari di periodici considerati estremisti come Umurwanashyaka (da aprile 1991 a gennaio 1993), l’ “Eco delle mille colline” (da giugno 1991 a gennaio 1994), Interahamwe (da gennaio 1992 a settembre 1993), La Medaglia Nyiramacibiri (da luglio 1991 a marzo 1994), Kamarampaka (tra gennaio 1992 e gennaio 1994), Power (novembre e dicembre 1993), infine dieci numeri d’Intera e due di Zirikana (1992-1993).
Gli autori riportano,inoltre di aver consultato alcune collezioni di giornali considerati “democratici” (Kanguka, Isibo, RwandaRushya, Kinyamateka, ecc…), i quali rivelano ancora alcuni aspetti di propaganda estremista. E’ il caso, per esempio, del giornale Isibo, che pubblicò nel mese di novembre 1992 il discorso di Léon Musegera, tenutosi in un incontro organizzato dal partito presidenziale nella sotto-prefettura di Kabaya, nella provincia di Gisenyi (nella parte ovest del Ruanda) e con cui, secondo gli autori, si auspicava lo sterminio dei tutsi.
La creazione dei giornali estremisti
Secondo il libro « Ruanda. I media del genocidio » la nascita dei giornali estremisti risalirebbe al 1989. Si tratta dell’occasione, per i membri vicini al presidente, di sfruttare la stagione del “dibattito delle idee”, iniziata due anni prima con l’uscita di un mensile indipendente chiamato Kanguka. La rivista aveva sconvolto il sistema mediatico, che a lungo era rimasto monopolizzato da tre organi ufficiali: Radio Rwanda ed i settimanali Imvaho e La Relève, ai quali vanno aggiunti il mensile Kinyamateka della chiesa cattolica e la rivista Dialogue diretta dai Padri Bianchi.
I membri dell’Akazu erano particolarmente irritati dalle critiche rivolte da Kinyamateka e Kanguka. Essi avevanointenzione di testimoniare il loro zelo individualenei confronti del presidente e della sua consorte con la creazione di propri giornali, nella speranza, come afferma l’opera, di ottenere qualche favore.
Il primo giornale « estremista », ad essere stato creato, è Intera (« In avanti », letteralmente “Il solco è oltrepassato”), apparso nel mese di dicembre 1989 su iniziativa di Séraphin Rwabukumba, uno degli uomini vicini al presidente Habyarimana, e che, si supponeva, opporsi a Kanguka. Tuttavia, in ragione dell’inesperienza della redazione o a causa dell’assenza di una reale volontà politica, il giornale ritarda a raggiungere i suoi obiettivi.
La situazione cambia con il lancio di Kangura. Si tratta, riporta il libro, della prima opera di “recupero” del genere, la più caricaturale nella sua presentazione, nella formulazione ed al contempo la più efficace.
I suoi promotori sperano di terminare l’esperienza di Kanguka e di ricoprirne il suo posto. Ciò spiega il titolo sinonimo di Kangura, ovvero l’equivalente di “Risveglialo” (mentre Kanguka significa “Risvegliati!”), una facciata di copertina che costituisce in realtà una mera contraffazione di Kanguka ed il licenziamento dei collaboratori “corruttibili”, come Hassam Ngeze, il quale, secondo il libro, diventerà uno dei personaggi della messa in scena mediatica del genocidio.
Secondo il libro, sembrerebbe che un gruppo di ufficiali di Gisenyi, guidati dal tenente colonnelo Anatole Nsengiyumva, avrebbe avuto un ruolo attivo nell’operazione. Essi sostengono di aver agito perché sospinti da Agathe Habyarimana, la moglie del presidente della Repubblica in persona, la quale ha assunto l’iniziativa di riunire il piccolo gruppo di membri fondatori: Séraphin Rwabukumba, il colonnello Théoneste Bagosora e l’universitario Ferdinand Nahimana, che si presenterebbe come il “cervello” del regime.
I primi articoli di Kangura sono principalmente delle risposte ai giornalisti di Kanguka. L’interesse dei promotori si attenua tuttavia a seguito dell’arresto, nel luglio 1990,del redattore capo di Kanguka per «alto tradimento» e cessa momentaneamente la diffusione del giornale. Nello stesso modo, Hassan Ngeze era stato arrestato per “turbativa dell’ordine pubblico”. Il 1° ottobre 1990, l’invasione del Fronte patriottico ruandese (FPR), avrà come conseguenza la riscoperta del progetto Kangura, mentre Hassan Ngeze viene rimesso in libertà.
Avendo nuovamente colto l’interesse del regime, Hassan Ngeze pubblica precipitosamente il suo numero 4 della rivista. Si tratta di un’edizione che, per la circostanza, attinge dalla documentazione del fronte militante anti-tutsi.Il giornale riporta l’esistenza di un “piano di colonizzazione tutsi nel Kivu e nella regione centrale dell’Africa”. Il testo sarebbe una vecchia montatura, di circa trent’anni prima, e destinato a riaccendere l’idea che i Tutsi appartengano ad una “razza” irrimediabilmente dominatrice e cospiratrice ai danni degli Hutu, i quali sono invece predestinati al ruolo di vittima.
Il numero 6, invece, contiene i «10 comandamenti dell’Hutu». I Tutsi sono dipinti come le bestie selvagge e le loro donne come delle prostitute e, al contempo, delle spie.
Alcuni periodici più o meno regolari, creati tra il 1991 ed il 1993, adotteranno lo stesso tono di Kangura. Anche le radio si metteranno al servizio dell’odio e della manipolazione etnica. Il 3 marzo 1992, Radio Rwanda diffonde, per ben cinque volte, un comunicato del «Comitato del Fronte patriottico ruandese», indicando la lista delle personalità del regime da uccidere. Il tono del messaggio e la ripetizione dello stesso nel corso della giornata costituiscono un evidente incitamento alla violenza.
La stampa ed il genocidio
Emerge dal libro che sono stati particolarmente utilizzati due mezzi durante il genocidio dei Tutsi del Ruanda, l’uno molto moderno, l’altro meno: la radio ed il machete.Il primo per dare e ricevere ordini, l’altro per eseguirli. Il governo insediatosi a seguito della morte del presidenteHabyarimana aveva lasciato rapidamente la capitale, stabilendosi a Gitarama, quindi a Gisenyi, prima di fuggire, a seguito della vittoria del FPR, alla volta dell’ex-Zaïre. Nel frattempo a Kigali, una radio, la RTLM, occupava un posto chiave del potere. Questa stazione si trasforma nello “stato maggiore dell’armata del genocidio”.
La RTLM si assume di fatto le prerogative governative: essa chiama la popolazione a combattere, spiegando la tattica per scovare e combattere i sostenitori del FPR. Essa minaccia i moderati ed incoraggia i più arditi, arrivando a criticare anche il governo ripiegatosi a Gitarama, invitato, questo, a ristabilirsi presso la capitale assediata. Dal 6 aprile 1994, la RTLM decide di trasmetteresenza interruzione al fine di « mobilitare » la popolazione e di stimolare lo zelo dei miliziani, dei soldati e dei gendarmi presenti ai posti di controllo. L’emittente è completamente sostenuta da Radio Rwanda. La RTLM sigla questa unione nella diretta del 3 giugno 1994. Essa accoglie con favore la decisione di Radio Rwanda di diffondere la canzone « Bene Sebahinzi » di Simon Bikindi, a sostegno del dogma delle tre etnie del Ruanda (Hutu, Tutsi e Twa), volte queste ad un eterno antagonismo nonché richiamando la difesa degli «interessi prioritari del popolo maggioritario» (gli Hutu).
E’ così che i media del genocidio si appoggiano fondamentalmente sull’ideologia di un etnicismo militante. L’etnicismo è diventato un mezzo di discriminazione sociale e di controllo politico. La minoranza tutsi rappresenta, in caso di tensioni, il capro espiatorio ideale, fino a far scaturire la mobilitazione del “popolo maggioritario” attorno al potere ed a fare emergere la natura “democratica” della dittatura esercitata a nome del “popolo”. Nella stampa “estremista”dal 1990 e nelle trasmissioni di Radio Rwanda e di RTLM durante il genocidio, vengono propagandati minuziosamente e con una grande forza dimostrativa, che non merita di essere messa in discussione, la priorità delle identificazioni “etniche”– una sorta di razzismo alla ruandese, anti-amitico – il ruolo fondatore ed onnipresente della rivoluzione “sociale” del 1959, nonché l’esistenza di una vera guerra di lunga data tra gli Hutu ed i Tutsi.
“Conflitto intertribale”, “Consueta guerra interetnica”, “tribù nutrite da un antico odio”, “guerre tribali”, “il seme dell’orrendo odio atavico”. Così avevo letto sui giornali italiani usciti in Italia durante il genocidio.
Qualche tempo dopo mi ritrovai in Rwanda ripetendo quelle parole a John, un ex combattente del Fronte patriottico rwandese, il quale mi rispose così:
“Ho visto pezzi di persone in bocca ai cani, e adesso cerco di guardare avanti, ma quando sento chiamare conflitto intertribale quello che successe qui nel ’94, per di più da parte di paesi che inviarono qui tonnellate di armi e machete…Ecco, allora sento che potrei impazzire…”
Il discorso mediatico, nel nostro caso quello dei quotidiani « Repubblica » e « Corriere della sera », ha fornito una interpretazione della vicenda ruandese in termini di conflitto etnico e tribale, ricorrente ed inevitabile, inserito nella cornice di un continente selvaggiamente violento.
L’Africa dei media è popolata da società dai costumi primitivi, da una umanità dolente che sembra ritrovare la sua ragion d’essere nell’esercizio di una violenza atavica, irrazionale e ferina.
L’assenza di approfondimento sulle ragioni che hanno preparato e motivato il genocidio ha contribuito a restituire una incomprensibilità al pubblico di lettori, o una comprensione basata sul tribalismo, sul primitivismo della società africana, in modo che l’opinione pubblica non si dovesse confrontare con le diverse responsabilità del genocidio.
Dall’ analisi che ho svolto emerge come “La Repubblica” abbia praticamente evitato di dare una spiegazione storica e politica al genocidio, limitandosi ad utilizzare sostanzialmente le categorie del tribalismo e dell’etnicità, arrivando persino a mettere nero su bianco delle vere e proprie bugie storiche.
Nel Corriere, ancor meno che ne “La Repubblica”, non venne mai tirata in ballo una spiegazione politica per i fatti del Rwanda, né venne mai fatto accenno ai processi coloniali.
Il lessico utilizzato rimanda ad un’idea di inumanità, si scrive di “orde barbariche assetate di sangue”, si commenta, in prima pagina il ventitre maggio, che “il conflitto che ha scatenato questi orrori non è politico né ideologico né religioso, ma razziale. Le sue radici sono nel dominio secolare dell’aristocrazia dei tutsi, signori delle mandrie…”
Nella lettura di tutti gli articoli da aprile ad agosto del 1994 riguardo al Rwanda, emerge un’analisi a dir poco lacunosa e soprattutto l’esistenza di alcuni grandi categorie categorie, clichè dietro ai quali si racconta solitamente l’Africa.
La prima categoria è l’assimilazione del paradigma anatomico-razzista, utilizzato storicamente dai Belgi, da parte dei giornalisti. La seconda categoria è quella di una storia (inventata) di antichi odi, senza precisi riferimenti temporali e immutata nel tempo. La terza infine è la categoria della tribù, ampiamente utilizzata dai quotidiani per spiegare le vicende.
Il paradigma anatomico, che ha sicuramente giocato un tristissimo ruolo nel genocidio, viene preso per buono come se effettivamente esistesse una valida differenza etnica rintracciabile in base a queste caratteristiche somatiche. Il fatto che gli Interhamwe abbiano svolto i loro assassinii in base a tale erronea distinzione non vuol dire che da giornalisti non si abbia il dovere di dare a tale distinzione la giusta spiegazione storica. Possiamo il ventitre maggio persino leggere di “cancellazione della minoranza di origine nilotica(…)”, chiaro riferimento alla teoria camitica, la quale ascrive ai Tutsi un’origine mai provata scientificamente ma sicuramente strumentalizzata dal colonialismo.
Il paradigma anatomico è conseguenza di teorie razziste, e i giornalisti non avrebbero dovuto prenderlo per buono. Nonostante le rappresentazioni caricaturali dei membri di ciascun gruppo – gli hutu bassi e tozzi, i tutsi alti e slanciati- è dimostrato come sia impossibile determinare scientificamente l’appartenenza “etnica” di un individuo sulla base delle semplici caratteristiche fisiche data l’ antichità e la frequenza degli intermatrimoni e la presenza di una sola lingua cultura e religione.
“La Repubblica” e il “Corriere della sera” invece mettono nero su bianco una grande bugia storica: “Tra gli Hutu e i Tutsi un conflitto secolare”. Il conflitto “inter-etnico”,“ha origini antiche”, infatti “le due etnie non hanno mai smesso di combattersi”. Secondo la “Repubblica” del dieci aprile “Gli Hutu, agricoltori che rappresentano il novanta per cento della popolazione, arrivarono nel paese in tempi antichissimi emarginando le etnie che vivevano nella zona, boscimani e twa(…)Tra il XIII e il XIV secolo i campi degli Hutu furono invasi dai Tutsi, cacciatori-allevatori provenienti con le loro mandrie dalle valli etiopiche. La loro netta superiorità militare permise di assoggettare rapidamente sia gli Hutu che i Twa, che divennero vassalli nel regno creato dai tutsi.” Secondo l’articolo della “Repubblica” questa situazione cambierà soltanto con l’arrivo dei colonialisti, in un certo senso descritti come salvatori. I Belgi infatti “eliminarono la schiavitù, ponendo fine alla tradizione che voleva gli Hutu servitori dei Tutsi”.
I concetti di tribù, razza, etnia, ci vengono presentati in un modo tale da celare quella che è la loro vera essenza: questioni storiche e politiche.
Se non si dimentica questo meccanismo perverso, il Rwanda non potrà riprendersi. Se lo perpetriamo attraverso la sua reificazione sulla carta stampata ne diveniamo complici.
La stampa agendo in questo modo può commettere infatti un doppio genocidio.
Quello che mancò nella descrizione dei fatti del Rwanda fu forse l’attribuzione di un senso – indubbiamente difficile da trovare, ma che comunque andava cercato – alle vicende. I giornalisti, specialmente quelli inviati sul luogo, avrebbero dovuto compiere un passo in più, inserire gli avvenimenti in una cornice.
Il pubblico si sarebbe potuto fare un’idea diversa dai watussi e pigmei che si scannano per via di un odio atavico tribale, se qualcuno gli avesse mostrato quei contesti, se qualcuno avesse cercato per loro le diverse responsabilità di una simile tragedia, se qualcuno avesse tentato di documentarsi sul passato coloniale. Al contrario ci si è adagiati su alcuni stereotipi non solo semplicistici ma addirittura erronei e pericolosi.
Il giornalismo che si fece sul Rwanda contribuì inconsapevolmente alle strategie politiche sottese al genocidio e fornì all’opinione pubblica una interpretazione deresponsabilizzante mistificando e deformando i fatti. Tale lettura dei fatti contribuì ad alimentare e reificare le categorie dell’odio etnico, legittimandole come vere senza spiegare quanto siano state invece creazione strumentale dell’indirect rule coloniale.
E’ stato il principale slogan di politici, commentatori e guru del settore, ripetuto a pappagallo dai principali organi di informazione internazionali: “Si tratta di una lotta tribale, un problema etnico, tutto africano”. Una formula semplice per chi doveva spiegare, accattivante per chi pretendeva quella minima dose di informazione quotidiana, appena sufficiente per potersi sentire cittadino del mondo.
Purtroppo quel jingle martellante, ripetuto ossessivamente anche dai principali media italiani, non aveva solo la caratteristica di esser privo di fondamento, ma quanto piuttosto di esser ipocrita al punto giusto da pregiudicare la comprensione e quindi la possibilità di intervenire per fermare i massacri. Insomma una vera overdose di informazione “tagliata male” che ha fatto perfettamente il gioco dei poteri che si scontravano nello scacchiere delle mille colline ruandesi contribuendo, non poco, al risultato finale di un milione di morti.
Il fenomeno dell’etnicizzazione del conflitto ruandese, che era in realtà primariamente politico e sociale, svela una delle facce più cruente della lotta per il potere in atto nell’Africa post coloniale. Il tribalismo, secondo Jean-Loup Amselle, direttore della scuola delle scienze sociali di Parigi, “è sempre il segno di un’altra cosa, il mascheramento di conflitti di ordine sociale, politico ed economico. Quest’analisi è una di quelle da considerarsi acquisite dall’antropologia e ci si auspicherebbe di vederla ripresa e diffusa nell’insegnamento e dai mezzi di comunicazione di massa”.
Una posizione che chiama in causa l’Occidente e l’imposizione della sua visione e dei suoi valori al resto del mondo secondo la vecchia formula conflittuale del the west and the rest. Proprio Amselle, negli anni ’80, cura la pubblicazione, insieme allo storico congolese Elikia M’Bokolo, di un testo che, con non meno di due decenni di ritardo, è finalmente dato alle stampe anche in Italia. “L’invenzione dell’etnia”, edito da Meltemi, è un lavoro collettivo che affronta, alle radici, proprio la genesi delle interpretazioni distorte e strumentali che l’Occidente ha voluto dare e darsi a proposito delle società africane.
Rileggendo oggi quel testo, è interessante notare come Amselle inizia il suo discorso con un grido di protesta capace di risuonare drammaticamente attuale: “All’inizio degli anni ’80 eravamo non pochi ad averne abbastanza della vulgata giornalistica che consisteva, e consiste tutt’oggi nel rendere conto di un qualsiasi avvenimento che accade sul suolo africano in termini di conflitto tribale o di lotta etnica, rinviando a una sorta di ferocia essenziale che si sarebbe interrotta solamente durante un breve periodo, quello della colonizzazione europea. In effetti, se nell’immaginario giornalistico il mondo arabo è il dominio dell’integralismo e l’India quello delle caste, il continente africano è per eccellenza la terra di elezione degli antagonismi etnici”.
Ma la rappresentazione distorta della realtà africana che offre il giornalismo non è che un sintomo di un male più profondo e radicato che ha le sue radici nell’epopea coloniale occidentale dove le teorie legate all’etnia e la manipolazione dei sentimenti etnici divenivano un instrumentum regni imprescindibile per il controllo del potere. Un’operazione basata su studi antropologici, prevalentemente di carattere evoluzionista, elaborati ed esposti da occidentali ad uso e consumo dell’Occidente, ma che intendevano avere il loro impatto sulle popolazioni autoctone che trovavano nuove chiavi interpretative per la loro stessa esistenza, così come spiega ancora Amselle: “Secondo questa prospettiva, il modo in cui gli indigeni si percepiscono sarebbe legato agli effetti di ritorno dei racconti delle esplorazioni e della conquista ma anche dei testi etnologici coloniali e postcoloniali sulla coscienza di sé”.
Insomma, la visione e l’interpretazione occidentale dell’africanità si configura non solo come distorta ma anche e soprattutto come coercitiva nei confronti delle stesse popolazioni locali. La questione etnica diviene dunque un perfetto strumento nelle mani del potere per dissimulare la sua stessa natura e raggiungere i propri obiettivi. Il colonizzatore estrapola e rafforza identità etniche presenti a livello marginale nella eterogenea società africana che, in un secondo momento, verranno rivendicate dalle stesse popolazioni come “strumento ideologico di determinazione sociale”, nella definizione dello stesso Amselle. Il passaggio dallo Stato coloniale a quello postcoloniale avviene, dunque, nel segno della continuità, nonostante il cambio degli amministratori, e perpetua la visione occidentale di una società africana divisa in non meglio identificate etnie o tribù. Una visione che non tarda a produrre contraddizioni e tragiche conseguenze.
Strano caso quello del Rwanda composto, teoricamente, da due etnie, gli Hutu e i Tutsi, che parlano la stessa lingua, hanno la stessa cultura, hanno la stessa storia e condividono, dalla notte dei tempi, lo stesso spazio geografico. Un caso da manuale, senz’altro, in considerazione della forte radicazione di una coscienza etnica laddove di etnie era veramente difficile poter parlare. Tanto che i belgi dovettero far ricorso a strumenti di misurazione fisici e all’introduzione di carte di identità etniche per poter dare un minimo di solidità a un teorema del tutto strampalato.
Per poter spiegare quello che Jean-Pierre Chretien definisce, in un saggio contenuto nello stesso volume di Amselle, “la cristallizzazione delle coscienze etniche” in Rwanda bisogna risalire alle esplorazioni di metà 800 quando i primi antropologi forgiarono ardite teorie, dai loro comodi salotti londinesi, basandosi sui resoconti di avventurosi esploratori. Legende, approssimazioni, idealismi, implicazioni razziste e suggestioni di stampo letterario e religioso davano a queste analisi un aspetto più pittoresco che scientifico. Basti pensare che l’invenzione della discendenza etiope dei Tutsi ruandesi, inventata di sana pianta dall’esploratore britannico John Speke nella seconda metà dell’800, sopravvisse fino al genocidio del 1994 quando i cadaveri venivano preferibilmente gettati nei fiumi affinché le acque li riportassero al nord, in Etiopia appunto, la terra della loro presunta provenienza.
Una teoria, quella dell’origine etiopica, che era stata, d’altra parte, apprezzata, accettata e rielaborata dagli stessi Tutsi, ben felici di una ascendenza di sì nobili origini. I lunghi drappi bianchi di vestiario e le pettinature sviluppate in altezza delle donne entrarono di prepotenza nella tradizione ruandese proprio per offrire a tutti visibile prova di tale prezioso lignaggio.
Gli allevatori Tutsi, con i loro modi gentili e le loro origini nobili, si presentarono, d’altra parte, come i migliori amministratori del potere coloniale a scapito degli umili Hutu, dediti soprattutto all’agricoltura. I Tutsi rappresentavano anche, agli occhi dei colonizzatori e in perfetta sintonia con le imperanti teorie evoluzionistiche, la traduzione perfetta dell’elite aristocratica e guerriera, immagine speculare del sistema del potere occidentale. In questo bizzarro gioco di ruolo, agli Hutu nonrestò altro che issare il vessillo del terzo Stato e, in seguito, del proletariato.
I processi di etnicizzazione, creati artificialmente dagli Stati occidentali per mantenere il controllo delle popolazioni assoggettate, esplosero con tutto il loro bagaglio di contraddizioni proprio con l’avvio della decolonizzazione. Alla vigilia della rivoluzione Hutu del 1959, il quadro era completo: il dominatore straniero Tutsi aveva soggiogato e sfruttato per secoli i lavoratori Hutu, una maggioranza silente e ora arrabbiata. Il manifesto Hutu del 1957, che affronta il “problema razziale” in Rwanda e l’avvio dei primi massacri di Tutsi già nel 1959, preludono a uno scenario che si sarebbe rivelato, nel proseguo del tempo, sempre più drammatico. Un’onda inarrestabile di violenze, avvenute sotto l’ala vigile e protettrice degli ex colonizzatori, che portò direttamente, attraverso un viatico di violenza e terrore, al genocidio del 1994, il delitto perfetto, il capolavoro finale di tutta l’epopea colonialista e razzista dell’Occidente.
Il genocidio in Rwanda non è stato un episodio incomprensibile di follia collettiva. E’ stato piuttosto la realizzazione di un piano progettato con cura. Un grande progetto di comunicazione che attraverso un uso strategico dei mezzi di informazione più diffusi ha creato un nemico. E poi ha dato istruzioni puntuali per eliminarlo. Daniele Scaglione, direttore della comunicazione di Action Aid International Italia, ha scritto il libro “Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile”.
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
NTEGEYIMANA Evariste 15 anni, in prigione a Butare
E.N. – Un gruppo di assassini sono venuti a prendermi a casa. Mi hanno detto di andare con loro. Ho rifiutato. Ma hanno minacciato di uccidere la mia mamma, che è Tutsi, se non andavo. Allora, ho avuto paura e sono andato con loro. Mi hanno fatto vedere tre bambini da uccidere. Ho rifiutato, ma un vicino mi ha obbligato a prendere un machete. Ho ancora rifiutato, ma mi hanno schiaffeggiato. Allora l’ho preso. Ho ucciso i bambini, non avevo scelta …
Y.M. – Quale è stata la reazione di tua madre quando l’ha saputo?
E.N. – Mi ha picchiato…
Y.M. – Quei bambini che hai ucciso, li conoscevi?
E.N. – Si, erano dei vicini. Mangiavano spesso da noi e io da loro.
Y.M. – E ora, come sono le relazioni?
E.N. – È la loro mamma che mi ha fatto mettere in prigione. L’amicizia tra le due famiglie è rotta…
Y.M. – Quale è la decisione del tribunale, ora?
E.N. – Che devo andare in rieducazione.
Y.M. – E l’uomo che ti ha trascinato, che relazioni ci sono tra voi?
E.N. – Faccio parte dei testimoni contro di lui, perché lui ha ucciso anche me. Non sono più un bambino, sono un assassino…
Mamafis è una donna tutsi che ha partorito nel mio ambulatorio alla fine di marzo. Vedova, si è risposata con un Hutu vedovo. Si amano alla follia. Hanno tre figli di primo letto e due del secondo. L’ultimo si chiama Mpore, dal nome del mio ambulatorio, che vuol dire più o meno «Consolazione». Anastase è un Hutu moderato, ma suo fratello è affiliato al partito estremista e membro della guardia presidenziale. I due fratelli si odiano. Mi ricordo di aver assistito a una scenata tra loro uno o due mesi fa.
Mezza pagina di Daniele Scaglione
Commenti, notizie, testimonianze e aneddoti in pillole
raccontate da Daniele Scaglione, capo del dipartimento
campaigning di ActionAid Italy
Bill Clinton, nel marzo del ’98, durante una conferenza stampa improvvisata all’aeroporto di Kigali, chiese scusa. Gli USA potevano fare molto per fermare il genocidio e non l’avevano fatto. Bill Clinton confessò di non aver capito, nel ’94, cosa stava accadendo in Rwanda. Forse è vero, chissà. Sicuramente, però, lo avevano capito molti suoi stretti collaboratori. Tra questi Madeleine Albright, che da ambasciatore USA presso il Consiglio di sicurezza dell’ONU si oppose con forza a un intervento per fermare i massacri. Ma Clinton, nonostante i suoi sensi di colpa, trovò del tutto naturale promuoverla, e nel suo secondo mandato presidenziale Albright ricoprì la carica di segretario di stato.
Il paese occidentale che si comportò in modo peggiore, però, è probabilmente la Francia. Prima del genocidio Parigi finanziò la corsa agli armamenti del paese poi, durante i massacri, sostenne il governo in mano ai responsabili del genocidio. Molte altre sono le nefandezze compiute e, sorprendentemente, è la Francia stessa ad ammetterne parecchie, in un rapporto redatto nel 1998 da una commissione parlamentare. Ma questo stesso rapporto conclude che la Francia non ha nulla da rimproverarsi – anzi! – poiché è stata l’unica nazione che realmente ha fatto qualcosa per fermare il genocidio. Una posizione assurda, ripetuta ottusamente da politici di ogni schieramento, come Mitterand, Balladour, Jack Lang, de Villepin. Cosa dovrà accadere, prima che la Francia riconosca davvero le sue responsabilità nelle atrocità del Rwanda?
da qualche parte nell’oscurità illuminata
dalla luna
appena prima dell’alba
qualcuno accende una candela
lei passa la mano sulla
foto di un figlio una figlia
forse un marito
un volto sparito nelle nebbie di guerra
li chiamano gli scomparsi
questi volti su centinaia di muri
ovunque nel mondo
compaiono in migliaia di manifestazioni
portati per le strade dalle donne
gli uccelli che le sorvolano
riconoscono i solchi scuri
del loro pianto
ed uniscono il proprio canto al loro
Ascolta
stanno cantando
Beppe Grillo intervista Federico Marchini, membro del comitato scientifico di Bene Rwanda e corrispondente da Kigali nel 1994 per La Voce di Indro Montanelli.