TESTIMONIANZE DAL GENOCIDIO/8
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
Alice M.
28 anni, superstite, Nyamata
A.M. – Un camion si è fermato davanti alla nostra casa, sono entrati degli uomini in uniforme da militari e da gendarmi. Uno di loro ha detto: “che bella ragazza, non ho il coraggio di ucciderla”. Ha frugato la casa, ha saccheggiato tutto, ha persino preso gli abiti che indossavo. Un secondo assassino ha preso mio figlio in braccio e lo lanciava in aria con violenza. È così che l’ha ucciso. “Suicidatevi signora, diceva, il Dio dei Tutsi è morto, non avete nessuna possibilità di sopravvivere”. Mio marito era riuscito a nascondersi. Io ho ricevuto un colpo sulla testa e sono svenuta. Quando se ne sono andati, mio marito mi ha scosso per svegliarmi e fuggire verso la Chiesa di Ntarama. Là, c’erano solo cadaveri. Allora abbiamo raggiunto la resistenza nella nostra zona e siamo rimasti là fino alla morte di tutti i sopravvissuti. Ci siamo allora nascosti nelle paludi. È là che mi hanno tagliato il braccio.
Y.M. – Chi ti ha tagliato il braccio?
A.M. – È difficile dirlo perché siamo stati attaccati da diversi gruppi di assassini. Mi ricordo solo che il giorno in cui ho avuto il braccio tagliato, ho visto che buttavano nell’acqua mio marito e lui non sapeva nuotare… Sanguinavo e ho perso conoscenza. Quando mi sono svegliata, parecchi giorni dopo, ero in una specie di ospedale. Mi ricordo che quando mi hanno tagliato la mano, non ho avuto male, ho solo sentito le ossa rompersi; dopo, ho avuto molto male.
Y.M. – Vedo che avete avuto due bambini dopo il genocidio, questo vi ha fatto dimenticare il vostro bambino ucciso?
A.M. – No, per niente. Amo anche loro ma niente può farmi dimenticare il mio bambino morto. È una ferita che non si cicatrizzerà mai.
Y.M. – Fai parte di questa associazione di handicappati che ho incontrato?
A.M. – No, non ho il tempo. Ho avuto due bambini dopo il genocidio e ho accolto tre orfani. Ho solo una mano, non è facile lavorare. Con mio marito, dobbiamo cercare di trovare qualcosa per nutrire questi bambini. Non ho il tempo di partecipare a delle riunioni di associazione.
Y.M. – Bisogna provare perché è importante essere con gli altri e poter parlare.
A.M. – È vero, a volte ci sentiamo molto soli di fronte a noi stessi.
André H.
34 anni, autore del genocidio, prigione di Kigali
Y.M. – Perché sei in prigione?
A.H. – Sono stato arrestato perché dicono che ho partecipato al genocidio.
Y.M. – E non è vero?
A.H. – Non è vero. Non ho ucciso nessuno.
Y.M. – Hai dei testimoni della tua innocenza?
A. H. – Sfortunatamente no. Tutti i miei vicini sono contro di me, persino quelli che erano con me durante il genocidio.
Y.M. – Perché pensi che sono contro di te?
A.H – Non so.
Y.M. – Dove stavi durante il genocidio?
A.H. – Ero a casa mia, ero molto malato e sono rimasto a letto.
Y.M. – Sei rimasto a letto per tre mesi?
A.H. – Sì, non mi sono mai alzato.
Y.M. – Non hai visto il genocidio?
A.H. – No.
Y.M. – Non sei scappato dalla guerra?
A.H – Sì, sono andato nello Zaire.
Y.M. – Quando sei tornato?
A.H. – Qualche mese fa.
Y.M. – Perché non sei rientrato prima?
A.H. – Perché tutti dicevano che ho ucciso un bambino di 12 anni e altre persone.
Y.M. – E conoscevi questo bambino?
A.H. – Sì, ma non l’ho ucciso, sono solo passato vicino al suo cadavere.
Prima dell’incontro, ho chiesto di che cosa era accusato quest’uomo. Mi hanno detto che ha commesso molti omicidi durante il genocidio. Avrebbe violentato un bambino di 12 anni prima di ucciderlo. Ne ho avuto abbastanza di ascoltarlo, era troppo duro e ho dovuto smettere.
K. Caritas, G. Jean-Marie-Vianney
8 anni e superstiti entrambi, Ngoma (Butare)
Caritas ride quando le chiedo se devo togliermi gli occhiali per parlarle. Parla con calma.
“Gli assassini hanno prima ucciso mamma. Lei ci gridava di non restare con lei, di fuggire. Quando mamma è morta, abbiamo vagato. Ma ci siamo imbattuti in altri assassini che ci hanno colpito con dei machete e gettati, mio fratello Alphonse, mia sorella Cérapia ed io, in una fossa. Solo io non ero stata colpita. Ma ho constatato che Alphonse era morto e che Cérapia aveva una grande ferita sul collo. Venuta la notte siamo riuscite a scappare, Cérapia ed io, e abbiamo vagabondato nascondendoci tra i cespugli. Il giorno dopo, abbiamo camminato e siamo arrivate ai piedi di una collina dove abbiamo trovato una piccola pozza riempita di cadaveri. Tra i corpi, c’erano degli spazi in cui si vedeva l’acqua, rossa a causa del sangue che vi era scorso. Ma avevamo talmente sete che abbiamo bevuto lo stesso.”
La madre adottiva di Caritas assisteva al colloquio. Mi spiega che Caritas ha avuto molti problemi psicologici dopo il genocidio. Non dormiva, si innervosiva per nulla, non accettava nessuna osservazione. Ma ora va meglio. Il suo ricordo del genocidio è totale.
Jean-Marie-Vianney
“Eravamo in una chiesa, ma la chiesa è bruciata. Siamo scappati di corsa. Mamma mi portava sulla schiena. A una barriera, ci hanno picchiato. Ho ricevuto un colpo molto violento sulla gamba. E poi mamma un giorno ha detto che andavamo nel Burundi. E poi un giorno hanno ucciso mamma. E poi, mi hanno portato in Europa, in un ospedale. E mi hanno curato. Mi facevano delle iniezioni. Oggi la mia gamba mi fa ancora male.”
Jean-Marie-Vianney è il fratello di adozione di Caritas. Nonostante un trattamento in Germania a causa di un trauma psicologico grave, si ricorda solo questi fatti e il suo soprannome: Kibonge, il cicciottello. È diventato un bimbo troppo calmo per la sua età.
1 comment maggio 28th, 2009