TESTIMONIANZE DAL GENOCIDIO/4
maggio 7th, 2009
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
NTEGEYIMANA Evariste
15 anni, in prigione a Butare
E.N. – Un gruppo di assassini sono venuti a prendermi a casa. Mi hanno detto di andare con loro. Ho rifiutato. Ma hanno minacciato di uccidere la mia mamma, che è Tutsi, se non andavo. Allora, ho avuto paura e sono andato con loro. Mi hanno fatto vedere tre bambini da uccidere. Ho rifiutato, ma un vicino mi ha obbligato a prendere un machete. Ho ancora rifiutato, ma mi hanno schiaffeggiato. Allora l’ho preso. Ho ucciso i bambini, non avevo scelta …
Y.M. – Quale è stata la reazione di tua madre quando l’ha saputo?
E.N. – Mi ha picchiato…
Y.M. – Quei bambini che hai ucciso, li conoscevi?
E.N. – Si, erano dei vicini. Mangiavano spesso da noi e io da loro.
Y.M. – E ora, come sono le relazioni?
E.N. – È la loro mamma che mi ha fatto mettere in prigione. L’amicizia tra le due famiglie è rotta…
Y.M. – Quale è la decisione del tribunale, ora?
E.N. – Che devo andare in rieducazione.
Y.M. – E l’uomo che ti ha trascinato, che relazioni ci sono tra voi?
E.N. – Faccio parte dei testimoni contro di lui, perché lui ha ucciso anche me. Non sono più un bambino, sono un assassino…
KABAGWIRA Clémence
24 anni, superstite, Nyamata
“C’eravamo rifugiati nella chiesa. Gli Interahamwe, erano attorno a noi, ma non ci rivolgevano la parola. I militari ci hanno circondato e ci hanno detto che ci avrebbero protetti. Eravamo molto contenti. Ma la domenica successiva, i militari e gli Interahamwe si sono messi insieme per ammazzarci. Sono svenuta sotto il colpo di un manganello. La sera, mi sono svegliata tra i cadaveri dei miei. Erano tutti nudi, come me. Mi sono nascosta in un campo di sorgo. Avevo freddo. Dopo tre giorni, ho avuto fame e sono tornata verso casa mia. Ho fatto forse quattro chilometri così, sempre nuda. Quando vedevo delle persone, mi nascondevo nella boscaglia. Arrivata a casa, ho visto che era distrutta e ho chiesto da mangiare ai nostri vicini hutu. Hanno riso. Ho chiamato i vicini, sono stata circondata e mi hanno fatto sedere di forza al suolo. Ridevano e mi domandavano dove era la mia famiglia. Non rispondevo, nascondevo il mio seno con le braccia. Alla fine, uno di loro mi ha presa e rinchiusa, sempre nuda, in una stanza senza finestre. Il giorno ammazzava. La sera mi picchiava e mi violentava …
Quando ho scoperto di essere incinta, dapprima ho avuto vergogna. Ma oggi, devo riconoscere che questa bimba è la sola ricchezza che mi resta. L’ho chiamata Umumararungu, che significa Colei che mi fa uscire dalla solitudine.”
N. Dancilla
Circa 40 anni, donna hutu, vedova di un Tutsi, Ntarama
D.N. – Vedi questa chiesa dove ora lavoro? È in questa chiesa che ci siamo rifugiati, mio marito, i miei figli ed io. È a questa porta che mio marito si è battuto contro i miliziani. Ha resistito molte ore prima di essere ucciso sotto gli occhi dei suoi figli, tranne il piccolo. Con l’avanzare del FPR, sono fuggita verso lo Zaire, perché la radio diceva che assassinavano atrocemente tutti gli Hutu al loro passaggio. In realtà, fuggivo il FPR perché ero Hutu e fuggivo gli artefici del genocidio perché avevo dei figli tutsi. Non sapevo più da che parte andare. Dopo due anni di miseria, alla fine sono rientrata nel mio caro paese con i miei figli. Mia suocera era mutilata dappertutto, le ho dato i due figli più grandi per occuparsi di lei.
Y.M. – E oggi, cosa speri?
D.N. – Spero solo una cosa: far crescere i miei figli.
Y.M. – Pensi di risposarti?
D.N. – Io? Darei fastidio al buon Dio chiedendogli una cosa del genere! E poi, è ridicolo. Una donna che ha dei figli deve occuparsi di loro. Qui c’é una donna che ha abbandonato i suoi figli ed è andata in città per cercarsi un marito. Ma tutti la prendono in giro.
Y.M. – E il tuo piccolo, come gli hai spiegato la morte di tuo marito?
D.N. – Gli ho raccontato tutto, ma non vuole credermi. Per lui, suo padre è suo zio, il fratello di mio marito. Non vuole rinunciare. Non può accettare che suo padre sia morto.
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