TESTIMONIANZE DAL GENOCIDIO/7
giugno 6th, 2009
Brani tratti dal libro “Le ferite del silenzio” di Yolande Mukagasana
Chantal M.
37 anni, superstite, Gahembe (Bugesera)
C.M. – Credo che siamo arrivati dagli amici di mio padre il 12 aprile; loro hanno gridato tutti insieme “Dove andate, scarafaggi? Non vogliamo più vedervi”. Era da queste stesse persone che avevamo messo tutti i nostri oggetti di valore. “Persino Dio vi ha abbandonati. Il Dio dei Tutsi non esiste più. Ritornate da dove venite.” Ci prendevano in giro e ridevano della nostra disperazione. “A che ti servirebbe se io ti salvassi, mi ha detto uno di loro, tu saresti l’unica Tutsi al mondo. Perché tutti gli altri moriranno. Dimmi piuttosto che morte scegli, il manganello, la spada o le pallottole.” Ho chiesto solo dell’acqua per i miei bambini. Non ce ne hanno data e ci hanno scacciato. “Non avete più il diritto di bere la nostra acqua.” Siamo andati nelle piantagioni di sorgo fino al mattino. Ero con il più piccolo dei miei bambini quando abbiamo sentito degli assassini chiamarne altri: “Alzatevi, siamo in ritardo per il lavoro.”
Y.M. – Dove erano i vostri altri figli?
C.M. – Signora, se avete veramente vissuto il genocidio, vi ricordate che non si pensava nemmeno più che avevamo dei figli. Una volta arrivati nella boscaglia, i bambini si erano nascosti per conto loro. Ho sentito come sono stati uccisi. Era al loro grido, che chiedeva grazia agli autori del genocidio, che li ho riconosciuti. Ad un certo momento, ho desiderato la morte, ne avevo abbastanza. Non sapevo più dove andare. Sono rimasta nello stesso posto, sperando che mi trovassero per uccidermi. Non mi sono più spostata. A volte, gli assassini passavano vicino a me, sentivano il sudore e il sangue. Persino quelli che credevo essere i migliori hanno ucciso. Era scoraggiante ascoltare le loro conversazioni, non sospettavano nemmeno della mia presenza.
Si parla della fame durante il genocidio, ma nessuno aveva più fame, solo sete. Per caso, si arrivava ad una pozzanghera e si beveva senza farsi domande. Qualsiasi acqua era potabile. Il bimbo che mi restava mi stringeva quando avevamo paura. Avevo l’impressione che mi dicesse “coraggio, mamma”. Mangiavo i semi di sorgo, glieli risputavo in bocca e mi sorrideva. Abbiamo vissuto così durante il genocidio. Non sono mai stata nascosta da nessuno.
Y.M. – Che speranza avete ora.
C.M. – Sono sola. Mi affido a Dio.
Y.M. – E la giustizia?
C.M. – La giustizia non ci serve a granché.
NIKUZE Consolata
48 anni, coltivatrice, in prigione a Butare
C.N. – In nome di Dio onnipotente, vi dirò cosa ho visto. La sera del 6 aprile 1994, c’era un uomo che fuggiva non so da chi. Ha corso verso una piantagione di sorgo, ma è stato raggiunto in fretta dalle donne.
Y.M. – E dov’erano gli uomini del quartiere?
C.N. – Ti giuro che non c’erano uomini.
Y.M. – Si, ma dove erano andati?
C.N. – Non c’erano.
Y.M. – Dove erano andati?
C.N. – Mio marito lavorava come guardiano di notte da un Bianco. Non c’era. E gli altri erano liberi di andare dove volevano. Non potevo sapere. E ogni persona che arrivava picchiava il fuggitivo. Io, non volevo che si pensasse che l’avevo picchiato. Allora, sono andata via. E le donne hanno cominciato a urlare e a fischiare. “La paurosa se ne va. La paurosa. Se quest’uomo fosse arrivato a casa tua, avrebbe ucciso i tuoi bambini.” Sono tornata per supplicarle di non picchiare quest’uomo. “Smettete di picchiarlo!” Mi hanno risposto: “Tu, dunque ti rifiuti di picchiarlo?” In nome di Dio onnipotente, l’ho colpito allora con un rametto di paglia. All’improvviso, un giovane è arrivato di corsa. Aveva una piccola giacca dalla quale ha tirato fuori un machete minuscolo.
Y.M. – Signora, osate dire un machete “minuscolo”. Dove avete visto un machete “minuscolo” durante il genocidio?
C.N. – È vero, era un machete normale.
Y.M. – Tutti questi vocaboli mi disgustano.
C.N. – Davvero, mia cara, ti dico la verità.
Y.M. – Anch’io, sono qui per ascoltarvi. Ed è per questo che ora siete in prigione?
C.N. – Si.
Y.M. – Solo per questo?
C.N. – Si.
Y.M. – Allora penso che siate innocente. Poiché non avete né colpito né assassinato, non capisco perché siate in prigione. Infatti trovo che non abbiamo granché da dire. Perché siete innocente.
C.N. – Ma se l’ho colpito con un rametto di paglia!?
Ho interrotto brutalmente il colloquio. La menzogna era troppo evidente. La situazione mi era diventata insopportabile.
UWITONZE Françoise
12 anni [?], superstite, Kíbeho
Y.M. – Che malattia hai?
F.U. – I vermi.
Y.M. – Li hai presi al campo profughi in Burundi?
F.U. – No.
Y.M. – Dopo il genocidio?
F.U. – Si.
Y.M. – O forse li hai presi prima?
F.U. – Si. Quando ero piccola.
Y.M. – Prima del genocidio, eri magra come ora?
F.U. – No.
Y.M. – Da quando sei dimagrita così tanto?
F.U. – Adesso.
Y.M. – Mangi abbastanza?
F.U. – Si, mangio.
Y.M. – Io ho l’impressione che non è abbastanza. Ma dimmi, perché non mi guardi negli occhi? Eppure, puoi.
F.U. – …
Y.M. – E perché non rispondi?
F.U. – …
Y.M. – Ti hanno detto di non rispondermi?
F.U. – …
Y.M. – Eppure sai parlare…
F.U. – …
Y.M. – Ti hanno vietato di rispondermi?
F.U. – No.
Silenzio.
Questa bimba sembra avesse 12 anni al momento del genocidio. E nella sua testa, ha sempre 12 anni. Ho l’impressione che non si svilupperà se non cambierà ambiente.
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