MA COME LI TRASFERIAMO 1.300 BAMBINI?
giugno 14th, 2009
X episodio de “La lista del console”:
A ogni rientro a Bujumbura, Mariann, mia moglie, mi faceva l’elenco delle chiamate e degli appelli. Suor Ambrosina Misuraca, sorella di don Vito, ci supplicava di evacuare l’intero orfanotrofio. Chiamava la nostra ambasciata di Kampala, e arrivavano sollecitazioni anche dall’Italia. Ma non si poteva farli uscire. Era estremamente pericoloso. C’era il rischio che lungo la strada tutti i bambini venissero massacrati.
«Alexis, facendo due conti, i bambini dei diversi centri ormai sono più di 1300». «Lo so. Ma come li trasferiamo 1300 bambini fuori dal Ruanda? E se restano, per quanto tempo riusciamo a procurare loro da mangiare?». Era una situazione disperante. Consideravamo tutte le ipotesi, per scartarle subito dopo.
L’unico aeroporto raggiungibile, quello di Butare, aveva una pista troppo corta. I soli aerei di grandi dimensioni che potevano atterrarvi erano i C-130. Avevamo provato a informarci sulla possibilità di ottenere un velivolo di questo tipo, ma al momento erano disponibili solo quelli dell’aviazione militare francese. Impossibile utilizzarli, in zona di guerra. L’alternativa era un piccolo velivolo da una cinquantina di posti. Questo significava un ponte aereo della durata almeno di una giornata intera. Con i combattimenti a pochi chilometri e le bande di interahamwe ovunque era un suicidio. Impensabile.
Via terra, poi, c’erano due strade: una attraversava la foresta, in direzione ovest, verso lo Zaire. Ed era pericolosissima. L’altra correva verso sud, in direzione del Burundi, quella che continuavamo a percorrere a ogni viaggio. C’era una trentina di barriere da superare, senza contare che servivano diversi camion o pullman. Che non avevamo.
Rilessi quel che avevo scritto qualche settimana prima, il 27 aprile, a suor Ambrosina: «Devo segnalarvi che nella situazione attuale l’evacuazione di duecento bambini appare impossibile. Al di là delle difficoltà che certamente ci faranno le autorità, il trasporto di duecento bambini verso le frontiere significa esporli a tutti i pericoli rappresentati dalle bande di assassini che sono concentrati negli innumerevoli posti di blocco lungo tutte le strade. La mia azione attuale è diretta essenzialmente nella ricerca di creare attorno all’orfanotrofio il massimo di protezione possibile».
La situazione non era migliorata. Anzi, i bambini erano triplicati, Eros non stava bene, e la guerra era più vicina. Mi sentivo profondamente impotente.
Alexis chiamò il centro della Croce Rossa di Butare. Quando appese il telefono, il volto era contratto e teso: «Hanno trasferito i soldati di Kanombe al centro», disse. Era il grosso campo militare governativo della capitale, nei pressi dell’aeroporto. In battaglia i governativi erano stati sopraffatti e avevano dovuto ritirarsi. Feriti e mutilati erano stati trasferiti a Butare. «Ora i bambini devono anche subire le vessazioni e le violenze dei militari», aggiunse. «Mi hanno riferito che appena arrivati hanno ucciso 27 persone, 5 sorveglianti e 22 bambini tutsi. Sottraggono loro pure il cibo». La situazione diventava veramente difficile.
Non ci demmo per vinti. In ogni caso, qualcosa si doveva pur tentare. Ci rimettemmo in contatto con il ministro degli Affari sociali. Nel mio precedente viaggio a Kigali avevo scoperto che era una persona che conoscevo bene: prima di entrare nel governo era il segretario dell’Unione degli industriali ruandesi. Così avevo cominciato a parlargli della necessità di non lasciare tutti quei ragazzi dispersi in giro per il Paese. Avevo suggerito di fare un accordo che ci autorizzasse a raggrupparli in alcuni centri e magari anche a portarli in luoghi sicuri, lontano dal conflitto. Si era detto favorevole. Ora si trattava di concretizzare in fretta.
L’intero governo, intanto, aveva ripiegato a Gitarama, nella parte Sud-occidentale del Paese. Kigali ormai era troppo insicura e non si sapeva quanto avrebbe retto. I ministri avevano deciso di spostare il quartier generale in un grande centro scolastico alla periferia di Gitarama. Per noi questo comportava il vantaggio di poter trattare direttamente con i ministri. Ma anche lo svantaggio che avevamo perso la possibilità di ottenere facilmente le autorizzazioni da Sylvain Nsabimana, il prefetto di Butare, che non aveva più il potere di farlo.
Alexis preparò una bozza di progetto per questi bambini da sottoporre ai ministri del Lavoro e degli Affari sociali. A metà maggio cominciammo le trattative. Ma non si arrivava alla firma. Il problema era tutto in una frase, che per noi era indispensabile: volevamo l’autorizzazione a prenderci carico di tutti «gli orfani, compresi coloro che si trovano nei campi di rifugiati, senza nessuna distinzione etnica, di razza o di religione».
Era quel «senza distinzione etnica» che creava problemi. Il mio conoscente, quello degli Affari sociali, si mostrava – almeno a parole – favorevole. L’altro evidentemente no.
Il Ruanda, intanto, scivolava verso l’anarchia più completa. Sapevamo che i militari perdevano via via di credibilità. Le sorti della guerra volgevano al peggio, e ormai chi contava veramente erano gli interahamwe. Mi era già capitato di vedere miliziani civili alle barriere che bastonavano i soldati, perché non avevano il permesso scritto per circolare. Quindi gli stessi militari, in quella situazione, non rappresentavano più una sicurezza: non avrebbero certo rischiato la pelle per condurre in salvo un convoglio di bambini.
D’altro canto, con l’arrivo del governo a Gitarama, la tensione era salita alle stelle. Di tutsi e oppositori politici in giro non se ne vedevano più. Ogni giorno, però, i capi degli interahamwe delle città del Sud mandavano sicari ad ammazzare qualcuno. Erano omicidi che servivano a mantenere alta la pressione sulla popolazione. Doveva essere costantemente rinforzato il clima di terrore. La gente doveva restare consapevole che chi non era col governo sarebbe stato automaticamente contro, cioè nemico da eliminare. Per questo c’era, ad esempio, l’obbligo quotidiano di fare un turno di alcune ore ai posti di blocco.
Un’organizzazione scientifica, capillare, pensata a tavolino. E supportata da idee folli che sentivo ripetere spesso: «Durante la rivoluzione dei primi anni ‘60, quando i tutsi scappavano, noi tutti abbiamo preso i loro beni e le loro case. Se tornano dovremo restituire ogni cosa». Questa era una delle mostruosità che facevano circolare, per rinforzare l’impegno della gente alla difesa popolare del territorio.
Va considerato, poi, che il ruandese per sua cultura ha un forte senso dell’obbedienza. Quando l’autorità ordina di fare qualcosa, la fa, giusto o sbagliato che sia.
La radio, questi ordini, li ricordava ogni giorno e ogni ora. La radio, in Ruanda, è la Gazzetta ufficiale. Per trent’anni era stato lo strumento principale di governo del Paese. Ancora oggi il calendario scolastico o le feste nazionali, le date dei funerali o le riunioni importanti si annunciano per radio. Tutti sanno di doverla ascoltare. Tutti sanno che quella è la voce delle comunicazioni ufficiali e dell’autorità.
Quella mattina del 16 maggio avevamo finalmente avuto le autorizzazioni a occuparci della salvaguardia dei bambini. I due ministri si erano convinti. L’atto della firma dell’accordo sarebbe avvenuto solo dodici giorni dopo, il 28 maggio, ma ormai c’era un impegno formale (per quel che contava, in quella situazione di anarchia) delle autorità a non ostacolarci. Comunque, era un pezzo di carta importante, che non ci esimeva, tuttavia, dall’ottenere le altre autorizzazioni: ogni spedizione e iniziativa necessitava comunque di permessi specifici relativi alle liste di persone che avessimo voluto trasferire. Permessi che venivano rilasciati, come sempre, sia dall’autorità politica sia da quella militare.
Non ebbi il tempo di rallegrarmene. Mi ero subito rimesso in macchina per raggiungere il centro della Croce Rossa Internazionale di Kabgayi. Volevo assicurarmi delle condizioni di padre Eros, che era ancora ricoverato. In più, avevo provviste e medicine per l’ospedale, datemi dalla base della Croce Rossa di Bujumbura.
L’ospedale da campo era sulla costa di una collina, e dominava proprio il centro di raggruppamento dei tutsi. Quando lo vidi, rimasi profondamente turbato: si trattava in realtà di un infernale campo di concentramento, nel quale si trovavano ammassate almeno 25 mila persone. Erano all’addiaccio, sotto la pioggia, in mezzo al fango e alle pozzanghere. I responsabili della Croce Rossa mi spiegarono che ogni giorno morivano diverse persone, specie per malattie respiratorie. Chi sopravviveva alle epidemie, rischiava di finire sotto i colpi dei machete, perché ogni notte qualche commando d’interahamwe andava ad ammazzare qualcuno.
La Croce Rossa non poteva intervenire. Erano bravissimi, quei ragazzi, e stavano facendo un lavoro immane. Ma non potevano interferire sul campo degli sfollati, perché sarebbero stati immediatamente cacciati via. O peggio. Allora, per limitare quello stillicidio avevano montato dei potenti riflettori in modo che il campo di notte non rimanesse totalmente al buio.
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