LA MORTE NON MI HA VOLUTA
febbraio 20th, 2007
Estratto dal monologo con il quale Yolande Mukagasana apre lo spettacolo “Rwanda94 – Une tentative de réparation symbolique envers les morts, à l’usage des vivants”.
Non sono un’attrice. Sono una sopravvissuta del genocidio in Rwanda. Questa è la mia nuova identità. Quello che sto per raccontarvi sono sei settimane della mia vita che ho trascorso durante il genocidio.
Nell’aprile del 1994, sono una donna sposata. Assieme a mio marito Joseph, abbiamo tre figli: Christian, 15 anni, Sandrine, 14 e Nadine, 13. Siamo felici. Nel quartiere di Nyamirambo, a Kigali, dove vivo, mi chiamano Muganga, che in kinyarwanda, la lingua dei rwandesi, significa dottore. Mi chiamano così perché in Rwanda i dottori sono piuttosto rari. In realtà, sono la capo-infermiera di un piccolo ambulatorio dove è necessario che io curi chiunque. Il che mi fa pensare che di nemici non ne posso avere. Ma il 6 aprile, la situazione cambia in modo disastroso. In tarda serata, mentre sono ancora nell’ambulatorio, il telefono squilla. E’ mio marito: Yolande, torna subito, ho bisogno di parlarti. Non ho avuto nemmeno il tempo di replicare, che aveva già messo giù il telefono. La sua voce non era normale, era angosciata. Mai, in sedici anni di matrimonio, mio marito mi aveva parlato in quel modo. Chiudo l’ambulatorio e mi rendo conto, tornando verso casa, che tutto è cambiato: le persone con le quali solitamente mi intrattenevo per quattro chiacchiere, di colpo non mi salutano più. Da parte mia, faccio i soliti cenni di saluto, ma le mie parole non trovano eco e i loro sguardi cercano di evitare il mio. Ho molta paura e mi pongo tante domande. A casa, trovo mio marito accovacciato in un angolo della sala da pranzo, la testa fra le mani. Disperato, piange sussurrandomi: Perdonami Yolande, avrei dovuto accettare la tua proposta di provare ancora a fuggire da questo paese. Il genocidio, dal tempo che se ne parla, penso che stia davvero per cominciare. L’aereo del presidente è stato abbattuto mentre tornava dalla Tanzania.
Non gli credo. Per me si tratta di una menzogna. Ma mi accascio al suo fianco e piango anch’io. Poco dopo, vedo arrivare mio fratello minore Nepo. Ha il viso tutto emaciato come se avesse appena finito di piangere. Chiama mia figlia Sandrine e le dice: Portami della farina. Con un pugno di farina di manioca in mano, si rivolge a me e mi chiede: Che cos’è questa Yolande? – E’ della farina. – No, questo non è farina, sono i tuoi: tuo marito, i tuoi figli, sono io, i tuoi parenti, i nostri amici. Dopo di che, soffia con violenza facendo volare via la farina. E ora dov’è la farina? Rispondo: E’ volata via!
Mio fratello mi fa arrabbiare perché non è proprio il momento di parlare della farina. E va avanti: E’ così che ci perderai tutti Yolande. Perderai tuo marito, i tuoi figli, gli amici, anche me, Yolande, mi perderai. Ma tu non morirai perché la morte non ti vuole. Avrai perso tutto: la speranza, la fiducia, la dignità. Avrai perso tutto Yolande, salvo l’amore. E con l’amore, ci vendicherai.
Al momento, non ho capito bene il suo discorso. Poi, mio fratello, ci propone di scappare nel sud del Paese, in Burundi, ma era impossibile lasciare Kigali. Si uccideva ovunque e nelle strade gli sbarramenti impedivano qualsiasi possibilità di fuga dalla città. Abbiamo appena fatto in tempo a tornare a casa. Adesso Yolande non ci rimane che aspettare. – Aspettare cosa Nepo?, dico io – La morte, risponde lui. Ancora oggi, rivedo mio fratello risalire nel suo minibus… D’allora, non l’ho più rivisto. Mai più. Sei anni dopo il genocidio, mia nipote Véné mi ha presentato una valigia che custodisce gelosamente sotto il suo letto e nella quale vi sono alcuni pezzi di ossa che ha ritrovato su di una collina nei vestiti di Nepo, gli unici riconoscibili.
Mio marito, orfano per colpa di altri massacri perpetrati contro i Tutsi – come quelli che nel 1963 il mondo non ha mai voluto riconoscere – non riusciva a prendere la minima decisione. Sembrava già morto. Di conseguenza, ho chiamato i miei figli: Ascoltate, oggi andremo a passare la notte nella boscaglia. (…) In quella boscaglia, ci siamo rimasti un’intera settimana, senza nulla da mangiare né acqua per i miei figli.
La mattina del 7 aprile, io e mio marito abbiamo lasciato i ragazzi nella boscaglia per tornare a casa e ascoltare la radio. Era l’unico modo per capire cosa stava accadendo intorno a noi. Mi sono connessa alla RTLM, Radio Televisione Libera delle Mille Colline, una radio che non faceva altro che disseminare odio tra i fratelli, diffondendo una lista interminabile di morti. Quando tutto a un tratto, ho sentito il mio nome. Pensavo di diventare matta, ma anche mio marito aveva sentito la stessa cosa. Con Jospeph, ci siamo guardati negli occhi senza trovare il tempo di reagire perché il telefono ha cominciato a squillare ininterrottamente. Alcuni amici chiamavano per dare le loro condoglianze a mio marito, ma rispondevo io al telefono. Un vero incubo. Altri ci chiamavano per darci il loro ultimo addio: Gli assassini sono qui vicino. E’ giunto il nostro turno. Volevamo dirvi addio. Anche a voi non rimane molto tempo. Dei ragazzi telefonavano e dicevano: Hanno ucciso i nostri genitori, ma mia madre respira ancora, lei può venire ad aiutarci a portarla in ospedale?
Questi bambini non capivano che non potevamo farne nulla per loro, e ancora oggi mi chiedo se qualcuno può immaginare la disperazione di questi bambini di fronte alla nostra impotenza. A mia volta, ho preso il telefono e ho chiamato nel mondo intero, in tutti i Paesi dove speravo di avere ancora degli amici. Ho chiamato in quasi tutte le ambasciate di Kigali, ho chiamato la sede dei Caschi Blu. Quando non c’era una segreteria telefonica, la risposta è stata la stessa ovunque: Non possiamo fare nulla per lei, Signora. Ho chiamato la Nunziatura Apostolica, ma mi hanno messo giù il telefono. Disperata, ho anche chiamato la sede dei ribelli dell’Fpr ma la linea telefonica era stata tagliata. Di colpo, ho capito quello che mio fratello intendeva con: Bisogna aspettare. Ma io la morte non la volevo aspettare. Forse gli adulti potevano anche aspettarla, anche se non sapevamo perché. Ma come spiegare ai bambini che devono aspettare la morte, una morte preceduta da torture e umiliazioni, senza ragione, per il semplice fatto di essere nati [Tutsi]? Io non ce la facevo proprio.
Siamo ritornati nella boscaglia, dove, nei giorni trascorsi lì, ho avuto il tempo di ricordare la mia infanzia. Pensai a quando, all’età di 5 anni, scoprii che mi chiamavano Tutsi dopo che una lancia mi trafisse la coscia destra. Uomini vestiti di foglie di banano picchiavano mia madre affinché rivelasse dove si nascondeva mio padre, per ucciderlo. La rivedo che m’impedisce di piangere tappandomi la bocca con le mani. Se piangi, mi diceva, torneranno e ci uccideranno perché ovunque stanno uccidendo i Tutsi. Così, considerato che non potevamo andare in ospedale, se non a rischio di venire uccisi, sono stata curata da mia madre, con delle foglie di non so quale pianta che mia mi metteva sulla ferita.
Il 12 aprile, André, un nostro giovane vicino di casa, arriva nella boscaglia. Ha granate ovunque, nelle tasche e sulle spalle. Ma quello che mi fa più paura è il suo machete che brilla al sole. Lo vedo incamminarsi in direzione di mia figlia Nadine. Ho l’impressione che abbia molta paura. Dov’è tuo padre?, le chiede. E mentre Nadine abbassa lo sguardo, mio marito si presenta direttamente a lui: André, cosa vuoi, sono qui. – Jospeh – dice il ragazzo singhiozzando –, non ho nulla contro di te, né contro la tua famiglia, ma oggi è la fine dei Tutsi. Ascolta la radio, è un ordine ufficiale. Mi hanno spedito qui per dar fuoco alla boscaglia, ma non ne ho il coraggio. Fuggite da mia nonna, vi vuole molto bene e vi nasconderà. Ma state attenti a mio padre, è crudele e vi vuole assolutamente morti.
E’ bastato muoversi un po’ nella boscaglia per vedere tutti quei ragazzi, tutte quelle donne che avevo curato urlarci contro: Ecco i serpenti, ecco gli scarafaggi, bisogna catturarli. Mi chiedevo che cosa avessi fatto di tanto grave perché i mie figli venissero braccati in quel modo. Mi sono sentita tradita. Ho reagito e ho portato i miei figli dalla nonna di André, che ci ha accolto in lacrime. Per me è una santa donna, ci ha nascosti in una piccola stanza buia, ma non ci siamo rimasti al lungo perché l’indomani mattina suo figlio ci ha scoperto e cacciato via. Vedo ancora sua madre affrontarlo e dirgli: Se verserai anche una sola goccia di sangue tutsi, questo sangue ti perseguiterà tutta la vita, perseguiterà te e i tuoi discendenti. Sono tua madre, Jean, non dimenticarlo. – Me ne frego, quello che voglio è che se ne tornino a casa loro.
Così, siamo tornati a casa. (…) Mio marito mi dice: Ascolta Yolande, ho preso una decisione: per meglio proteggerci, dobbiamo separarci. Ho chiamato tua nipote, Spérancie, verrà a prendere i ragazzi, mentre tu andrai a nasconderti non so dove. Io, andrò alla barriera – No, se ci vai ti uccidono. – Lo sai che è un ordine ufficiale, devo assolutamente andarci, e se mi uccidono, forse avrete salva la vita. (…) Quando m’incamminerò verso la barriera, i loro sguardi saranno puntati su di me, questo permetterà ai ragazzi di poter attraversare la strada senza essere visti. Abbi coraggio perché devi sopravvivere per i nostri figli. Ho capito che si stava sacrificando per salvarci.
Vedo Spérancie venire a prendere i miei figli e mio marito incamminarsi verso la barriera. (…) Io, mi sono rifugiata dal mio primo vicino, Côme, che era diventato un assassino e io non lo sapevo. Lui comunque non c’era perché era andato “a lavorare”, come si diceva in quei giorni. Il genocidio era diventato un lavoro civico. Ero con Cécile, sua moglie, quando a un tratto vediamo dalla finestra Côme recarsi con un gruppo di militari armati verso la barriera dove si trovava mio marito. Hanno iniziato a separare gli Hutu dai Tutsi per poi fucilare solo i Tutsi. Mio marito non ha avuto la fortuna di morire subito. L’ho visto trascinarsi verso casa mentre Côme tornava a casa sua con tutta una serie di indumenti e alimenti che aveva prelevato da casa nostra. (…) Non appena mi ha visto, mi ha cacciato via. Nella fuga, ho visto una folla accanirsi contro una persona. Ho riconosciuto i vestiti di mio marito. Lo picchiavano, cadeva ma lui si rialzava, lo tiravano su e di nuovo lo picchiavano ancora, finché ho visto un machete abbattersi sul suo suo braccio. Ho visto la sua mano cadere per terra. Un filo rosso ha attraversato i miei occhi, mi sono sentita soffocare, sono svenuta.
Dopo il mio risveglio, avevo molta sete. Sono tornata da Côme perché non sapevo dove andare. Ho chiesto da bere e ho saputo da sua moglie Cécile che ero andata via da due giorni. (…) Poi, ho deciso di andare a trovare i miei figli… Li ho ritrovati vivi, feriti ma vivi, umiliati ma vivi. Per noi, questo era l’essenziale.
Hanno iniziato a raccontarmi tutto quello che avevano subito: Mamma, ci hanno torturati, siamo stati costretti a riconoscere un cadavere, era quello di papà. Volevano che ripetessimo che apparteneva al Fronte Patriottico Rwandese, e noi lo abbiamo fatto. Eppure, tutte queste persone erano amici di papà. (…) Mio figlio Christian si è messo a piangere: Mamma – mi disse –, non ti voglio vedere qui, devi partire, perché non hai alcuna possibilità di salvarti. Non vogliamo assistere alla tua morte, il cadavere di papà ci è bastato. E’ stato tradito da loro che pensava fossero suoi amici. Hanno colpito Nadine dicendo che aveva delle grosse gambe da ragazza Tutsi. Hanno colpito Sandrine dicendo che cresceva per diventare alta come gli alberi. Spérancie è stata costretta a rivelare dov’eri, ma gli abbiamo detto che eri morta. Allora, un amico di papà ha voluto darmi un colpo di machete sulla testa, mi sono protetto con il braccio ed è così che si è tagliato. Mio figlio aveva una frattura aperta all’avambraccio. Volevo medicarglielo, ma Christian mi ha detto: Mamma non perdere tempo, ci hanno avvertito che alle sette del mattino verranno a ucciderci.
Erano forse le cinque o le sei. Non lo so. In quei giorni, non avevamo più la nozione del tempo, né tantomeno dei giorni. Contava solo la vita o la morte. Sebbene i miei figli insistevano affinché ci separassimo, rimanevo convinta del contrario.
Un nostro ex giardiniere si è presentato da noi, con un machete in mano: Tu, serpente, cosa ci fai qui? Devi partire, altrimenti farai uccidere i tuoi figli. Se tu non ci sei, forse avranno una possibilità di sopravvivere. Ma se ti vedono, allora morirete tutti assieme. Così, sono andata via con la speranza che i miei figli avrebbero avuto la vita salva. Ancora oggi mi dico che se non fossi partita i miei figli sarebbe probabilmente ancora vivi. Mi sento una madre indegna, che ha abbandonato i suoi propri figli alla morte.
Sono andata da Déo, un altro amico. Ma anche lui mi ha cacciata via. (…) Poco dopo, una ragazza si è presentata davanti a me: Sei tu che perseguitano? Mi chiamo Emmanuelle, mi hai guarita quando tutti i dottori mi prendevano per pazza. Io ti nasconderò. (…) Emmanuelle mi ha nascosta sotto un doppio lavello di cemento. Per poterci stare dovevo far passare i tubi di scarico fra le mie gambe e piegare la testa. Sotto quel lavello ci ho passato undici giorni. (…)
Emmanuelle mi aveva comprato una carta d’identità hutu. Mi disse: So che non è il tuo nome, né tantomeno la tua foto, ma ormai non ci fanno più caso. Guardano soltanto la menzione hutu o tutsi, per essere uccisi o risparmiati. Così mi sono fatta registrare sotto falsa identità. (…) Grazie a un amico, sono stata condotta dai Caschi Blu africani all’Hotel des Milles Collines, dove alcuni di noi sarebbero stati scambiati con dei prigionieri hutu in mano al Fpr. (…) Nella hall dell’albergo, ritrovo per miracolo Spérancie: Spérancie – le chiesi d’istinto –, dove sono i miei figli? (…) Ma zia, Emmanuelle non ti ha detto nulla? Appena dopo la tua partenza, sono arrivati degli assassini e ci hanno obbligati a svestirci. Ci dicevano che tutto ciò che avevamo, ora apparteneva agli hutu. Ci hanno fatto uscire e messi in fila. Mancavi solo tu. Ci hanno guidati fino alla fossa. Tuo figlio era davanti, il suo sguardo mi atterrisce ancora, prima di essere colpito per primo con un colpo di machete alla nuca e essere buttato giù nella fossa. Sandrine ha subìto la stessa sorte, Nadine invece non ha aspettato e si è buttata giù viva nella fossa da dove continuava a urlare: “Spérancie, scappa via, va a cercare mia madre, dille di perdonarmi, ho avuto paura della morte e del machete, e così mi sono buttata viva nella fossa”. Ha continuato a parlarmi fino al punto in cui ha iniziato a delirare. Ho supplicato affinché venisse uccisa, ma si sono rifiutati. Qualcuno ha detto: “Non è la figlia di Muganga, è la sua impiegata”. Nel frattempo, Nadine mi chiamava, e alla fine ha smesso di delirare, perché era stata ricoperta dagli altri cadaveri. Zia, perdonami, ti ho fatto il male più grande, non sono riuscita a proteggere i tuoi figli.
A questo punto Yolande si alza, fa un passo avanti verso la platea, alza la mano e dice:
Coloro che non avranno la volontà di ascoltarmi sono complici del genocidio in Rwanda. Io, Yolande Mukagasana, dichiaro davanti a voi e di fronte all’umanità che chiunque non voglia conoscere il calvario del popolo rwandese è complice dei carnefici. Non voglio né terrificare, né impietosire, voglio testimoniare. Solo testimoniare. Questi uomini, che mi hanno fatto subire le peggiori sofferenze, non li odio, né li disprezzo, ho persino pietà di loro.
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1 Comment Add your own
1. vital acai&hellip | giugno 25th, 2009 at 15:04
vital acai…
La figure humaine, apr s avoir disloqu en cinquante ans……
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