“L’UMANITA’ E’ FERITA DAL SILENZIO”, DI YOLANDE MUKAGASANA
aprile 6th, 2009
La nostra umanità è ferita. Eppure, non ne siamo ancora del tutto consapevoli. Come possiamo proteggere le generazioni future se non abbiamo capito nulla?
Lancio un appello a tutti i giovani affinché sappiano cosa è successo sulle colline del Rwanda. So che sono proiettati verso la vita, auspicandosi che l’umanità cambi in meglio. Hanno il dovere di cambiare il mondo in cui avranno dei figli. So che lo vogliono ed ho fiducia in loro. Sono anche convinta che ne siano capaci.
Dietro il silenzio delle vittime si nasconde la paura. Dietro i loro sguardi si nasconde la sofferenza quotidiana. Dietro questo silenzio si nasconde il dolore di ogni singola persona.
Dietro il silenzio dei carnefici si nasconde la paura, diversa da quella che provano le vittime, poiché dietro il loro silenzio si nasconde il timore per la verità e la giustizia. Ho visto i traumi dei carnefici. Al solo pensiero, ne provo vergogna. Come vittima, non so se ho il diritto di commuovermi per la loro sofferenza, di cui sono gli unici responsabili.
Le ferite dei sopravvissuti sanguinano ancora, e sono ben lontane dal cicatrizzarsi, dato che in ogni momento della loro vita, positivo o negativo, esse si riacutizzano.
La sofferenza maggiore consiste però nella forzata convivenza con i carnefici. La donna o la ragazza violentata, ha a volte addirittura la sfortuna di incontrare di prima mattina l’uomo che l’ha violentata. Un orfano incontra, o addirittura è costretto a coabitare con coloro che massacrarono la sua famiglia, o con chi torturò sessualmente sua madre, violenza di cui egli fu lo sventurato testimone. Si tratta di una vera e propria tortura quotidiana. I superstiti, quando incontrano queste persone, abbassano semplicemente gli occhi. Alcuni hanno anche paura di testimoniare in certi tribunali, per non essere poi uccisi.
I carnefici hanno paura della testimonianza delle vittime. Se i carnefici non vedessero le ferite fisiche dei sopravvissuti, di coloro che non sono riusciti ad uccidere, forse starebbero meglio. Per loro vedere i superstiti, significa vedere i propri crimini.
Le vittime del genocidio dei Tutsi sono ancora vittime, poiché nessuna potenza ha voluto aiutarli a ricostruirsi. Dal 1994, si pretende che mantengano un rigoroso silenzio. Il TPIR (Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda) non prevede alcun risarcimento per le vittime.
Non hanno avvocati; sono rappresentate solo dal pubblico ministero. Non hanno diritto a costituirsi come parte civile. Sono solo dei semplici testimoni. Si sentono abbandonate dal mondo intero. Le donne violentate non hanno accesso alle medicine anti Aids, mentre, invece, i loro stupratori ricevono assistenza medica nel carcere del Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda. Molte donne sono morte di Aids dopo aver testimoniato al tribunale di Arusha.
Altre vittime sono state assassinate dopo aver testimoniato davanti a questo tribunale. Tutti sanno chi è andato a testimoniare, e tutti sanno quando tornerà a testimoniare ancora e da dove verrà. I prigionieri inviano messaggi alle loro famiglie rimaste sulle colline del Rwanda.
Per massacrare più di un milione di persone in tre mesi, utilizzando semplici armi tradizionali, c’era bisogno di molta mano d’opera, vale a dire di molti assassini. Dopo il genocidio, le prigioni erano stracolme, tanto che diverse scuole furono trasformate in luoghi di detenzione: innanzitutto, per arrestare tutti i sospetti, e in secondo luogo per mancanza di alunni.
Diversi bambini erano stati uccisi, altri erano degli assassini, altri ancora erano fuggiti in esilio insieme ai loro genitori.
I Rwandesi hanno bisogno di giustizia per ricostruirsi. Questo vale sia per le vittime che per i carnefici, i quali devono reintegrasi nella comunità degli esseri umani.
Dopo il genocidio, sembrava impossibile che in Rwanda si riuscisse a fare giustizia. I pianificatori avevano programmato nei dettagli anche la loro impunità. “Tutti sono colpevoli, dunque nessuno lo è.” Fare giustizia, era una vera e propria sfida.
Gli specialisti dicevano che ci sarebbe voluto un secolo per poter processare tutti i genocidari. La giustizia classica europea era insufficiente. Inoltre, in Rwanda non c’erano più magistrati: alcuni erano stati uccisi e altri erano fuggiti.
Il Rwanda si è allora rivolto alle Nazioni unite, chiedendo la creazione di un tribunale penale internazionale. Anche questo, però, non è sufficiente. Dal momento della sua creazione sino ad oggi, il tribunale penale internazionale ha emesso 30 condanne ed ha assolto 5 persone. I ricercati circolano liberamente e qualcuno gode addirittura della protezione di alcune potenze europee. Tuttavia, anche in Rwanda, per mancanza di testimoni, c’è chi è riuscito a farla franca: in questi casi, il genocidio è stato portato a termine con successo. Per fortuna che i crimini di genocidio sono imprescrittibili!
Il Rwanda ha ripristinato il sistema giudiziario tradizionale, esistente in epoca precoloniale.
Il tribunale Gacaca* amministrava la giustizia in maniera abbastanza semplice. Le famiglie di una collina si riunivano e il più saggio assumeva il ruolo di giudice. Questi era scelto tra i più anziani e per la condotta irreprensibile avuta durante la sua vita. Si trattava di una giustizia riconciliatrice. Una giustizia che aiutava il condannato a ricostruirsi, per reintegrarsi nella società. Questa giustizia era basata sulla confessione, la testimonianza, il perdono e il risarcimento. Tuttavia, questa giustizia non era in grado di giudicare i reati più gravi, i quali venivano esaminati dalla Corte reale. Le prigioni non esistevano nella cultura rwandese.
Esisteva la pena di morte, abolita ufficialmente il 1 luglio 2007. La pena di morte, tuttavia, negli ultimi dieci anni, non è mai stata applicata.
In mancanza di altre soluzioni, il Rwanda ha provato il Gacaca che si è dotato di leggi. È diventato una specie di Corte d’Assise. La differenza è che non ci sono né avvocati difensori, né avvocati di parte civile. C’è una giuria composta da persone irreprensibili, elette dalla popolazione.
È una giustizia indipendente, in grado di infliggere una pena fino ad un massimo di 30 anni di reclusione. C’è un tribunale, affiancato da una corte d’appello, a cui il condannato può fare ricorso. Tuttavia, questo tribunale non è competente per giudicare i pianificatori del genocidio. In questo caso, l’imputato viene processato dalla giustizia ordinaria.
L’ideologia del genocidio è ancora attuale in Rwanda. Lontano dal potere, si continuano ad uccidere i superstiti del genocidio e qualche testimone non Tutsi. I genocidari che si riconoscono colpevoli, in base alla legge del 2001, beneficiano di una riduzione della pena: metà la scontano in carcere, l’altra metà svolgono dei lavori per la collettività. Alcuni assassini confessano, per poter usufruire dei benefici offerti dalla legge: desiderano uscire dal carcere per continuare il lavoro. Il genocidio era, infatti, chiamato lavoro. La parola genocidio non veniva mai usata.
Sono convinta che per cambiare la società, occorra occuparsi dell’educazione dei bambini, dato che è stato proprio il sistema educativo precedente a creare dei carnefici da un lato e delle vittime dall’altro…
Lancio un appello per la coesistenza pacifica tra i popoli.
Lancio un appello per la tolleranza.
Lancio un appello contro la classificazione degli esseri umani in prototipi.
Chiedo alle nuove generazioni di impegnarsi per poter vivere nella diversità e nella serenità.
Le diversità rappresentano la nostra ricchezza.
In un genocidio siamo tutti perdenti: sia le vittime che i carnefici.
Dall’introduzione di Yolande Mukagasana a “Le ferite del Silenzio”
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1. Bene-Rwanda » PROFI&hellip | aprile 7th, 2009 at 00:04
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