I CENTO GIORNI DEL CONSOLE: COSI’ FURONO SALVATI CENTINAIA DI RUANDESI

aprile 7th, 2009

Clicca il link per scaricare il primo capitolo de “La lista del Console”: I° capitolo-la-lista-del-console-benerwanda

La storia di “giusto” di Pierantonio Costa è diventata nota all’opinione pubblica nel 2004, dieci anni dopo il genocidio, attraverso il libro “La lista del console” (Edizioni Paoline).I 15 episodi che presentiamo sono una rielaborazione tratta da quello stesso volume, che l’editore Paoline ha volentieri concesso di utilizzare, visto l’alto significato dell’iniziativa dell’associazione “Bene Rwanda”.Nessuno li conosceva, prima, i cento giorni di Pierantonio Costa. Lui non li aveva mai raccontati, neanche in famiglia nei dettagli.

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Costa vive ancora in Rwanda. Fa l’imprenditore, come in tutti i precedenti 40 anni passati nel Paese delle mille colline. Per 15 anni, dal 1988 al 2003 è stato anche console onorario per l’Italia in Rwanda. Ed è in questa veste che è cominciato il suo coinvolgimento nei tragici avvenimenti dell’aprile 1994.Io lo conobbi, come tutti i giornalisti italiani che si recavano all’epoca in Rwanda, nel corso di una missione all’interno del Paese, mentre erano in corso i massacri. Viaggiammo insieme per soli tre giorni, dal 19 al 21 maggio 1994, in una delle sue “incursioni” nel Paese per cercare di dare aiuto agli oltre 500 bambini accolti nell’orfanotrofio di Nyanza.
In quei viaggi si fanno molte ore in fuoristrada, si mangia e si vive costantemente insieme, si condividono le tensioni, le paure, le decisioni vitali. Insomma, si diventa amici, in quelle circostanze, di un’amicizia del tutto singolare.
Ebbene, tutti i partecipanti avevano uno scopo ben preciso per rischiare la pelle in mezzo ai posti di blocco dei miliziani ruandesi. Mi era chiara la scelta di ciascuno, ideale e/o professionale. Meno che di uno. Perché Costa accompagnava quella spedizione? Come imprenditore, no di sicuro. Come console non era certo tenuto a farlo. Quindi?
Indagai, glielo chiesi. Ma il burbero benefico personaggio liquidava la faccenda con due borbottii. Non riuscii a sapere perché si stava prodigando.
Dopo la guerra venni a sapere dettagli e brandelli delle sue imprese: colleghi, volontari, missionari mi raccontavano di quanto si era dato da fare Pierantonio, dei rischi personali che aveva corso, delle tante persone che aveva aiutato a uscire dal Rwanda. Venni a sapere che era stato insignito della medaglia d’oro al valore civile per aver portato in salvo gli italiani presenti in Rwanda all’inizio della guerra. E che un’altra onorificenza gli era stata attribuita, per analoghe ragioni, dal Belgio. Insomma, c’era indubbiamente qualcosa di particolare nel comportamento di questo atipico e poco diplomatico console.
Rimanemmo amici, negli annni a seguire, ma senza mai affrontare quell’argomento dei “cento giorni”.
Un bel giorno di dicembre 2003, gli mandai un’e-mail, proponendogli di scrivere un libro sul “suo” Rwanda, raccontandomi cos’era accadduto durante il genocidio. Mi rispose subito: «Perché?», scrisse. «Vale la pena di riaprire certe ferite?» In realtà non sapevo se ne valeva la pena. Rincorrevo un’intuizione, nulla più. Alla fine accettò, superando la ritrosia e la discrezione che lo contraddistinguono.
Detto e fatto, trascorremmo qualche giornata nella sua casa di Bruxelles. Conobbi, finalmente, la sua storia. «Per la verità», esordì, «è uno sforzo terribile riparlare di quegli avvenimenti». Mentre lo diceva, aveva gli occhi lucidi. E li ebbe in tanti altri momenti.
Quella storia verrà raccontata in queste quindici prossime settimane.
Aggiungo soltanto che mi sono formato la convinzione che Pierantonio Costa non è soltanto una persona dotata di una grande generosità. Secondo me, è un giusto, nel senso che danno a questo termine gli ebrei. «Ho solo risposto alla mia coscienza. Quello che va fatto lo si deve fare», ha continuato a ripetere durante le nostre conversazioni. Ha sempre minimizzato sia i rischi sia il valore del suo contributo. Come fanno spesso i giusti.
Trovo questa storia straordinaria per due motivi.
Il primo. Ha una grande forza simbolica: è la classica goccia di bene nell’immenso mattatoio che fu il Rwanda di quei giorni. È la vicenda di un moderno Davide contro Golia, nella quale Davide non può combattere Golia, ma solo cercare di strappargli qualcuna delle vite umane che sta divorando. Un Davide, però, che ritiene alla fine di aver perduto, e che ancora dopo dieci anni è roso dal tarlo del «si poteva fare di più».
In secondo luogo, Costa è un uomo normale che ha saputo comportarsi in modo straordinario. Non aveva ambizioni al martirio, non si considera un eroe, non ritiene di aver fatto un granché. Non è il missionario che ha totalmente votato la vita agli altri, né il rambo pronto a opporre il proprio petto ai proiettili. Perciò, in teoria, la sua impresa era alla portata di tutti. Ha fatto – come spesso dice – solo ciò che riteneva essere nelle sue possibilità. Per questo fa riflettere. In quei giorni, in quei difficilissimi momenti, ha usato i propri soldi, l’influenza, le capacità per fare il bene e per dare una mano agli altri, dove e come ha potuto.In Rwanda — ricordiamolo — è morto, secondo le stime, un milione di persone in poco più di tre mesi. Cioè 416 persone all’ora, 7 ogni minuto. Per la cronaca, «quel poco» che ha fatto Costa ha permesso di salvare oltre 500 ruandesi, portati in salvo con i convogli organizzati direttamente da lui, senza contare i 123 italiani, i belgi, gli svizzeri, i francesi e gli altri europei. E ha contribuito in modo determinante alla protezione e al salvataggio di un altro migliaio di bambini.
Mentre faceva questo, militari e interahamwe, ladri e sciacalli, l’hanno depredato e rapinato di tutto ciò che aveva. E lui, nelle stesse settimane, elargiva mance a destra e a manca per ottenere i permessi, formare i convogli, superare i barrage, i posti di blocco dei miliziani.
“Beato il Paese che non ha bisogno di eroi”, recita la famosa frase. Credo che sia beato anche quel Paese che ha tanti giusti, cioè uomini straordinariamente normali o, se vogliamo, normalmente straordinari.
Per quel che mi riguarda, posso solo considerare una fortuna aver conosciuto uno di questi giusti. Ed essere onorato della sua amicizia.

Luciano Scalettari

Milano, 6 aprile 2009

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